domenica 28 dicembre 2008

Una serata in Italia

Traffico scorrevole. Porta Pia: tempo stimato 9 minuti”. Così recitava il cartello al neon appeso nella nebbia della piovosa serata di ieri davanti all’Ara Pacis, a Roma, dove la mia macchina aveva pensato bene di esalare l’ultimo respiro. Un serpentone ansimante gemiti metallici si contorceva a nemmeno un metro da me, eppure le lettere gialle risplendenti nella foschia assicuravano che la bestia avrebbe senz’altro spostato il suo ventre a Porta Pia entro nove minuti.
Del resto, una suadente voce femminile mi aveva rassicurato altrettanto fermamente che il soccorso stradale sarebbe giunto “entro quaranta minuti”, ed era appena passata un’ora dalla telefonata.
Aspettiamo. Fa freddo in macchina, mia moglie batte i denti, passano i vigili e ci intimano di smammare, e io lo farei tanto volentieri, se solo potessi.
Intanto il cartello cambia, ora dice “Traffico scorrevole. Porta Pia: tempo stimato 6 minuti”, e forse a monte di dove siamo le condizioni saranno migliorate, ma a vederla così io direi che non ci vuole meno di mezz’ora anche solo per arrivare a imboccare il sottopasso, cento metri più in là. Subentra l’apatia, ce ne stiamo in silenzio a guardare i fari delle macchine che ci si fermano accanto, prigioniere della morsa di metallo, e ovviamente a guardare i retrovisori, nella speranza di avvistare il carro attrezzi. Niente. Mi ritrovo a pensare a un vecchio racconto di fantascienza di Ray Bradbury, in cui una pattuglia di terrestri vaga senza posa su un pianeta battuto da una pioggia perenne che rende il paesaggio sempre lo stesso e sempre grigio; noi siamo al riparo, ma per il resto non ci trovo molta differenza: fari che ci passano accanto, pioggia, cielo plumbeo, buio. Unico elemento cangiante del paesaggio, il cartello luminoso: “Traffico scorrevole. Porta Pia: tempo stimato 7 minuti”. Mi chiedo quale sia l’algoritmo capace di elaborare previsioni così precise laddove io vedo solo un’immutabile marmellata di metallo colorato. Mi ricordo di un algoritmo altrettanto mirabile, quello che sul sito del comune mostrava un bel sole splendente il giorno della piena del Tevere: che sia la stessa società a curare le previsioni del traffico?
Guardo l’orologio: le sei e tre quarti, è passata un’ora e mezza da quando la signorina dell’ACI mi ha assicurato che in quaranta minuti mi avrebbero rimorchiato. Chi sa poi per dove, visto che la gentilissima pulzella non è stata in grado di dirmi né se i soccorritori sarebbero stati in grado di recapitarmi una batteria nuova (il problema è quello lì, ne sono certo), né dove si trovasse l’officina convenzionata più vicina. E in un’ora e mezza niente di niente: né il mezzo di soccorso, né un avviso di ritardo. Il vuoto assoluto. Richiamo, mi risponde Beethoven. L’inno alla gioia, però, mi pare decisamente una presa per il culo. Non me ne vorrà il geniale crucco per gli sfanculamenti con cui ho salutato la sua opera, spero, ma comincio a essere veramente stufo. Alla fine si fa viva una certa Tea, che mi chiede se sono certo di aver chiesto soccorso all’ACI. La salva da una morsicatura via etere il provvidenziale esaurimento della batteria del mio cellulare (pure quella! Ma che gli ho fatto io di male ad Alessandro Volta?). Richiamo, altri dieci minuti in compagnia di Ludwig, poi prende l’iniziativa Luana (ma come funziona, non le prendono se non hanno un nome da Pornostar?). E’ spiacente Luana, ma c’è grande richiesta, pare che sia rimasta appiedata mezza Italia, non è proprio in grado di dirmi dove sia il mio mezzo di soccorso, anzi non sa nemmeno se è partito… C’è bisogno di altri commenti? Ruggisco, sfanculo, le dico che è meglio se non si presentano, sennò gli metto le mani addosso. Attacco il telefono, risolvo all’italiana, e cioè con gli amici: conosco un garagista, quello è gentile e mi dice di andare da lui, mi presterà un ordigno che pesa venti chili e che mi dovrò portare in collo fino alla macchina (taxi a Roma, in centro, sotto le feste di Natale quando piove, ovviamente manco a parlarne). L’ordigno genererà la scintilla che farà ripartire la mia povera vecchia Fiat Marea, poi penserà l'amico garagista a ricaricarmi la batteria, nottetempo, nel suo garage.
Ho fatto tutto questo, alla fine saranno state le otto quando finalmente ho tolto la macchina dalla scomodissima posizione in cui era, e guardando le facce nelle macchine che si muovevano a passo d’uomo accanto a me mi è sembrato che fossero le stesse di mezz’ora prima, quando mi ero allontanato a piedi per andare a prelevare l’ordigno salvifico. Eppure il cartello diceva: “Traffico scorrevole. Porta Pia: tempo stimato 5 minuti. Buone feste”.

lunedì 22 dicembre 2008

Sfida all'OK Corral (presso Rocco Toys)

Natale incombe e i gattopuzzi scappano da questa bolgia urbana, anche se –ahimè – troppo tardi, dovendo restare al chiodo fino al giorno stesso di Natale; poi, però, il signor Gattopuzzo e la signora Cucciola si ritirano al paesello, e tanti saluti alla turba berciante che infesta le strade e rende folli a camminarci in mezzo. Casino, luci, ressa, clacson, congestione di traffico, masse di carne semoventi…Bleah!
Questo orrore della folla ce l’ho sempre avuto, eppure una volta non esitavo a tuffarmici in mezzo; certo, c’erano motivazioni molto solide. Prendiamo per esempio Natale ’96, la vigilia. Chiudete gli occhi e immaginate il Gattopuzzo poco più che trentenne, fisico atletico, sguardo deciso, single, scatenatissimo e pure in carriera, che si fa incastrare e anziché lavorare mezza giornata si trova a dover consegnare – da solo – i materiali per un mailing alla tipografia; perché qualcuno (o meglio: Qualcuno, leggi l’amministratore delegato, che all’epoca ancora mi ispirava la maiuscola) aveva deciso che quella roba doveva partire proprio in quei giorni lì.
E però il GPZ è anche zio di una nipotina ormai metamorfosata in Alien, come tutti gli adolescenti, ma che all’epoca era un’adorabile tesorino di tre anni, che aspettava impaziente Dado (mi ci chiama ancora, la fanciulla) e soprattutto il regalo che Dado aveva di certo consegnato a Babbo Natale. Solo che Dado non aveva consegnato proprio un tubo, perché era aduso a lavorare dalle dodici alle sedici ore al giorno e non aveva avuto tempo di battere i negozi di giocattoli alla ricerca di Baby Mangiapappa Falacacca, che era il bambolotto alla moda tra le bimbette di quegli anni lì. Contava sulla vigilia , l’incosciente zio, come se fosse facile in quel giorno di delirio setacciare negozi alla ricerca di una preda fin troppo ambita da mamme, papà, zii, nonni, amici, parenti e affini fino al settimo grado.
Per farla corta: finisco di preparare il materiale alle 18, pianifico: prima il regalo all’adorata nipotina, poi la volata verso la tipografia, che tanto il tipografo ci abita sopra e la roba gliela posso portare pure a casa. Mi fiondo nel mio peugeotttino azzurro parcheggiato a via Po, parto alla volta di Rocco Toys e… resto bloccato seduta stante in un magma di metallo urlante.
Come abbia fatto non dico ad arrivare da Rocco Toys a Corso Francia, ma piuttosto a non venire arrestato o anche terminato dalla forza pubblica è per me tuttora un mistero; sta di fatto che a Corso Francia Baby Mangiapappa Falacacca non c’era, le scorte già depredate da legioni di ossessi. Monta il panico, sono le 18.30, che fare? Mi attacco al mio primo cellulare, che aveva più o meno le dimensioni di un ferro da stiro da viaggio e una riserva di batteria non superiore a cinque minuti, dopo essere caduto in una pozzanghera proprio mentre lo scartavo, appena comprato. Setaccio una decina di negozi via etere (quelli che si degnano di rispondere), ricevo un timido segnale positivo da un altro Rocco Toys; problema: sta sull’Ardeatina, che in quel casino è come dire su Saturno. Ma GPZ Cuore di Zio non demorde: mi metto al volante con cipiglio criminale, deciso a infrangere tutte le norme del codice della strada e svariati articoli di quello penale; sgommo, arroto, schivo, urto, insomma guido il povero peugeottino come fosse un motorino e miracolosamente arrivo alla meta, alle otto meno dieci, ma è ancora aperto! Schizzo fuori dalla macchina, mi sa che la lascio pure in moto, presto presto! Prima che chiudano, o peggio che qualcun altro si compri l’ultimo esemplare! Ho un vantaggio competitivo, conosco quel negozio per averlo frequentato in compagnia di un’antica fidanzata, e così mi lancio subito nel reparto giusto, vedo un rivale in tutti quelli che mi passano accanto, li guardo in cagnesco, avvisto da lontano lo scaffale, vedo pure il bambolotto e – orrore! Ce n’è rimasto per davvero solo uno, e proprio lì vicino due papà stanno assediando la commessa con la fatidica richiesta “dove posso trovare Baby Mangiapappa Falacacca”? Lei glielo indica, io non ne ho bisogno, ma loro sono in vantaggio. Perdo ogni ritegno: mi metto a correre, loro capiscono al volo e fanno altrettanto, ma io ormai ho l’abbrivio e poi modestamente sui cento metri sono sempre stato un fulmine, arrivo insieme a loro, ci guardiamo negli occhi, leggo lo sgomento nel loro sguardo e, memore di millanta sfide vinte a rubabandiera, so che quello è il momento: prima che si riscuotano agguanto la preda e schizzo via, li lascio lì con un palmo di naso, prima a inveire contro di me (ma io sono già lontano con il tesoro, e corro rapido verso la cassa), e poi a supplicare la commessa impotente che gliene trovi un altro, che lo ordini, lo teletrasporti, lo materializzi, lo crei ma faccia qualcosa, perché loro a casa dalle pargolette senza Baby Mangiapappa Falacacca no, proprio non ci possono tornare, e le mogli li scuoierebbero vivi per aver fatto tardi al lavoro trascurando i bisogni dell'angelica prole.
Trafelato passo alla cassa, pago ridendo sguaiatanente per lo sguardo attonito e quasi addolorato della cassiera, che alle otto della vigilia gli tocca pure sorbirsi uno spettacolino di questo genere, quasi quasi strillo “Adrianaaaaaaa!!!!” come Rocky Balboa (giuro che c’è mancato un niente, mi sentivo davvero come se avessi vinto i mondiali, Rocco Toys come l'OK Corral!), rimonto in macchina e via, verso la libertà! Mi mancano ancora ottanta chilometri a casa della mamma e devo pure fare tappa in tipografia, quando ci arriverò interromperò la cena della vigilia del buon Roberto, il tipografo, che mi offrirà pure di cenare con loro, mentre invece la mamma mi perseguita con chiamate sul cellulare a intervalli di cinque minuti, e tra uno smadonnamento e l’altro finalmente, alle nove e mezza, esausto varco la soglia di casa, dove tutti stanno lì incazzati ad aspettare il signorino ritardatario e schiattano dalla fame. Mi becco i rimbrotti, la mia dolcissima sorellina manifesta il proposito di evirarmi e lo farebbe se non si mettesse in mezzo quel sant’uomo del marito, ma che possono saperne loro della mia felicità? Ho vinto un mondiale, sono un campione, e loro non sanno… E mentre finalmente mi siedo e inforchetto gli spaghetti allo scoglio, il mio pensiero va cavallerescamente ai due sconfitti della competizione: chissà che vigilia gli starà toccando in questo momento, poveracci!

martedì 16 dicembre 2008

La Storia non siamo più noi

16 dicembre 2008, alcuni titoli raccolti qua e là nella rete:

Tangenti, arrestato l'ad di Total
Coinvolto anche deputato Pd

(La repubblica.it)

Leggi razziali, Fini attacca: «Anche la Chiesa si adeguò»
(Il corriere.it)

In Abruzzo vince Chiodi.
Democratici in caduta libera

(Il Sole 24 Ore.com)

Pd: sì a pensione a 65 anni per le donne se Brunetta appoggia legge su occupazione
(Il corriere.it - 15 dicembre 2008)

Pescara: arrestato il sindaco D’Alfonso (PD), indagato Toto
(Il Giornale.it)

E Silvio fa i conti «La Lega mi ha stufato»
«L'addio alle Province è nei patti, quei soldi servono»

(Il corriere.it (12 dicembre 2008)

Riporto questi titoli perché penso che supportino la tesi azzardata che avevo espresso in un post di qualche tempo fa (http://ilgattopuzzo.blogspot.com/2008/09/vedonero.html); dicevo, in sintesi, che la politica come la conosciamo sta per finire, che la destra populista ha vinto definitivamente e si prepara ad incorporare il PD in un’alleanza in cui quel partito, ridotto ai minimi termini, sarà subalterno; dicevo anche che questo nuovo blocco, che ha tagliato fuori qualsiasi istanza di sinistra anche grazie al suicidio della sinistra radicale, che non ha saputo andare oltre i vecchi paradigmi marxisti, partorirà dal suo stesso ventre la propria opposizione, che sarà la Lega; la quale, ottenuto il federalismo, si arroccherà sul territorio – dove è la sua vera ragion d’essere, senza la quale scomparirebbe - e si alleerà con formazioni territorialiste del Sud, che stanno già nascendo. Siamo completamente dentro all’orizzonte di Hegel, insomma: una tesi e un’antitesi si sono contrapposte e stanno per generare una sintesi, che stavolta assomiglierà molto alla tesi, data la sconfitta rovinosa dell’antitesi; ci sarà però una scissione della sintesi che genererà una nuova antitesi, e il nuovo scontro si protrarrà per decenni. Solo che non sarà più Destra contro Sinistra: sarà Centro contro Territorio, perché è il territorio (regione, città, quartiere) la frontiera in cui la massa ha identificato la propria linea del Piave, una volta abbandonata ogni velleità egualitaria: siamo sconfitti, ma siamo almeno padroni in casa nostra.
I pochi titoli riportati sopra sono spie del fatto, secondo me, che il processo sta accelerando: il PD è in disfacimento prima di aver davvero cominciato a esistere, travolto dalla propria inconsistenza e dalle inchieste giudiziarie, in cui trova addirittura la solidarietà interessata di Berlusconi (vedi il caso Del Turco); è scoppiata, innescata probabilmente dalle stesse forze politiche vicine a Berlusconi, la tangentopoli del Centrosinistra, che non lascerà pietra su pietra. Alla fine della giostra, ridotto più o meno alle dimensioni dell’UDC, vedrete che il PD troverà conveniente fare da stampella a Silvio, che nel frattempo sarà arrivato ai ferri corti con la Lega (e infatti il titolo: “La Lega mi ha stufato”). Ora la deve accontentare la Lega il buon Silvio, perché il federalismo lo vogliono anche la stragrande maggioranza dei suoi elettori, ma vedrete che prima di fine legislatura la scaricherà: a che pro alimentare un contropotere forte che dal territorio può fare da contraltare ai suoi progetti?
E, in vista della morte dell’opposizione di Centrosinistra, è già iniziata la lotta per l’appropriazione delle spoglie: Fini vuole portarsi a casa il bollino blu della laicità e arriva addirittura a prendersela con la Chiesa, che del resto lo ha sempre trattato come un pezzente, preferendo dialogare direttamente con il suo capo (e così, en passant, toglie pure un po’ di responsabilità dalle spalle dei suoi camerati di un tempo: come dire ‘il Fascismo sbagliò, ma gli altri dov’erano?’); la questione morale, tanto cara a Berlinguer, passa in gestione al ruspante Di Pietro, che la usa a mo’ di randello e ne svilisce parecchio i contenuti.
Il PD, da parte sua, sembra voler accelerare la convergenza, probabilmente per poter trattare da una posizione che lo vede con ancora un minimo di forza, prima che la magistratura lo travolga; sennò, come spiegare le aperture a Brunetta su quella che una volta sarebbe stata un’opzione strategica da difendere e su cui mantenere l'esclusiva (i diritti delle donne) a prescindere dalla giustezza o meno delle proposte della controparte?
Prepariamoci ai funerali del PD, anche se credo che ci sia ben poco da rimpiangere; e prepariamoci pure, almeno quelli come me, che reputano importante l’equità sociale, a finire fuori dalla Storia: la nuova opposizione territorialista sarà sì capace di intercettare quella che una volta fu la rabbia del proletariato e ora è semplicemente il livore delle periferie, ma i suoi obiettivi saranno diversi: identitari, localistici, fondamentalmente difensivi. Certo, la Storia ama sorprendere e nessun esito è scritto, ma qui da noi una forza nuova e prorompente capace di canalizzare le energie verso un progetto condiviso e non verso l’arroccamento localistico purtroppo non si vede all’orizzonte.

lunedì 15 dicembre 2008

Raccontami una storia...

Immaginate di dover scegliere se leggere una storia, un libro di barzellette o un manuale di economia e finanza.
Molti chiederanno delucidazioni sulla storia: è lunga? E’ a lieto fine? E’ edificante? Diciamo che per ora questo non ci interessa: pensate a una storia che vi piacerebbe leggere, e va bene così.
Siccome siamo in Italia, terra di scarsissime letture, mi sa che ai più interessano al massimo le barzellette di Totti; qualcuno un po’ più snob, o magari addirittura romantico, sceglierà la storia. Il manuale di economia e finanza, francamente, me lo risparmio volentieri pure io, che sono comunque costretto a consultarlo tutti i giorni, più volte al giorno, per motivi di lavoro.
Di che abbiamo parlato? Ma di politica, mi pare evidente. O meglio, di come si vincono e si perdono le elezioni.
Prendete Obama, per esempio: ha raccontato, rappresentato, interpretato una bellissima storia a lieto fine: il ragazzo povero e svantaggiato – in quanto nero - che trionfa sulle avversità con tenacia e intelligenza, e nell'ora disperata si carica sulle spalle il suo paese e lo trascina fuori dal buco nero che lo sta inghiottendo, come ha già saputo fare con se stesso.
Bush, otto anni fa, ha fatto la stessa cosa, con una storia ovviamente molto diversa: lui è salito a cavallo e, armato di lazo e di colt, ha recitato la parte del cowboy che pesta i cattivi; a me questa sua storia pareva uscita dritta dritta dal libro di barzellette, ma io alle elezioni americane non voto e a quelli che invece votano la storia è piaciuta così tanto da volerne leggere anche il seguito, quattro anni dopo. Anche se poi, alla fine, i deboli che voleva salvare lo hanno preso a scarpate. Letteralmente.
Veniamo a casa nostra. Qui abbiamo il Berlusca che, pure, non ci è andato soft: mailing a gogò con la favola della sua ascesa, e la Veronica e mamma Rosa, e bla bla bla e poi, nel dubbio che a qualcuno potesse non fregargliene una mazza delle sue due famiglie, ha prontamente tirato fuori dal cilindro un nutrito repertorio di barzellette da caserma; non fanno ridere, ma pare che lui faccia simpatia a molti, con questi tentativi generosi di suscitare il buonumore. E pure Silvio il risultato a casa lo ha portato: ha vinto tre elezioni, negli ultimi quindici anni. Non è Obama, ma per il teatrino nostro è bastato e avanzato, e lo spettacolino ha spopolato.
L’avete capito che c’entra in tutto questo il manuale di economia e finanza? Io penso di sì, ma comunque mettiamolo pure nero su bianco: il manuale di economia e finanza è ciò che ha tentato di raccontare agli elettori il centrosinistra negli ultimi quindici anni, con il sussiego dei professori di una volta, sempre pronti a bacchettare l'allievo un po' tardo di comprendonio; impapocchiandosi, per giunta. Che c'è di strano se in questi quindici anni le elezioni le hanno vinte una volta sola – nel ’96 il potere lo presero grazie al salto acrobatico della Lega, dopo aver perso nelle urne – e di misura talmente stretta da essere rimandati ignominiosamente a casa dopo nemmeno un anno e mezzo?
Per ora fermiamoci qui. Ma ci vorrei tornare su questo tema: la politica di grande respiro nasce da una narrazione. Fu una narrazione quella di Marx, una magnifica storia di oppressione, riscatto e redenzione, una vera e propria traslazione sul proletariato delle traversie del Popolo eletto, al quale Marx apparteneva in quanto ebreo; fu narrazione quella della DC, sebbene proiettata nell’oltremondano; e giù per li rami, fino a Kennedy, a Mandela, e adesso a Obama.
Anche il populismo vorrebbe raccontare storie, che però a chi è attento si rivelano per le barzellette che realmente sono (ogni riferimento a nani pelati realmente esistenti è puramente e scientemente cercato).
Il manuale di economia e finanza dovrebbe essere usato per passare al vaglio le storie e catalogarle nella categoria di competenza: narrazioni o barzellette, e quindi politica o populismo. Invece i geni del centrosinistra nostrano hanno pensato bene di abolire il canovaccio e ci hanno ammannito dal palco una bella lezione di economia teorica, spacciando oltretutto per verità acquisite una serie di panzane di cui la crisi di questi mesi sta facendo sommaria e inflessibile giustizia; chi tra loro voleva atteggiarsi a narratore ripeteva a pappagallo le storie della sinistra del secolo scorso, tacendo che lì il fine ormai è storia, e non è stato lieto.
Ad un certo punto lo ha capito Veltroni che non era parlando di percentuali e tassi di cambio che si potevano scaldare i cuori, ma ahimé: Ciccio proprio non è credibile, nelle vesti di Obama de noantri. E così eccoci qua: ci manca un’ideologia? Sì. Ci manca un leader? Forse. Ci manca un grande affabulatore? Sì, è questo ciò che ci manca più di ogni altra cosa.

venerdì 12 dicembre 2008

Dal passato remoto

Da bambino, durante le vacanze di un’estate particolarmente calda e sonnolenta, nel paesino di nemmeno duemila anime in cui vivevo allora, avevo preso l’abitudine di passare i pomeriggi a leggere l’antologia di una mia vicina di casa un po’ più grande di me; io avevo appena finito la quarta o la quinta elementare, lei andava in terza media e aveva tutti e tre i volumi di questo scrigno di sogni che non ho mai dimenticato. Erano tre volumi belli cicciotti, con nemmeno un disegno o un’illustrazione dentro, per quanto ricordo, e in copertina c’era il disegno di un leone, o di una chimera.
Sarà che in quel paesino dimenticato da Dio i libri erano merce rara negli anni settanta; o sarà che l’antologia era bella davvero, proprio non so perché mi appassionai così tanto; ma passai l’estate a leggere quei racconti, all’ombra delle ortensie giganti sulla scala esterna della casa in cui vivevo con i miei, e in cui ancora vive mia madre. Mi prese, in particolare, la fantascienza, e di quella passione non mi sono mai più liberato, se è vero che ho la libreria piena di Asimov, Bradbury, Dick e qualche decina di altri che adesso nemmeno ricordo.
A quell’antologia ho pensato spesso negli anni, ogni tanto mi tornava in mente un racconto: quello degli americani e dei russi che infine si tirano addosso le loro armi micidiali che però non sono testate nucleari – ormai superate -, ma missili caricati a gas suasivo, che converte il nemico al proprio pensiero, con il risultato che la guerra fredda ricomincia a parti invertite; o quello in cui un numero infinito di matematici va a congresso e alloggia in un albergo infinito, occupando tutte le stanze, ma c’è sempre posto quando arriva qualcun altro perché basta che tutti scalino di un posto; o l’altro, terribile, in cui Venere è descritto come un pianeta su cui piove sempre, da ere ed ere, un diluvio ininterrotto, e una pattuglia di terrestri cerca di raggiungere una cupola protetta sfuggendo ai terribili venusiani, creature acquatiche capaci di annegare un uomo facendolo soffrire per ben otto ore.
Poi pochi giorni fa la risposta: una bancarella a porta Pia, un mucchio di libri e sopra a tutti, in bell’evidenza, l’antologia con la chimera in copertina; era solo il terzo volume, l’ho preso in mano con vera emozione, l’ho sfogliato. Il gas suasivo: Dino Buzzati; l’albergo infinito: Stanislaw Lem; il diluvio su Venere: Robert Silverberg. E ce ne erano altri, a decine, gente che ora è giustamente idolatrata, ma che nell’Italia di quegli anni lì non era amatissima, soprattutto dalla cultura ufficiale. Eppure in quell’antologia c’erano tutti: Bradbury, Clarke, Brown, solo per fare qualche nome.
Ho guardato la copertina: Salinari-Calvino. C’è bisogno di dire altro?
Eppure il libro non l’ho comprato: li volevo tutti e tre, averne uno solo mi sembrava una mutilazione. Però è stato proprio bello scoprire che se quei racconti mi erano rimasti così impressi non è perché erano le mie prime prede di lettore insaziabile, ma perché li aveva scritti gente che con la penna non aveva pari. Chi dice che il genio non esiste?

mercoledì 10 dicembre 2008

Commentate, gente, commentate...

Provo a riaprire i commenti, con la speranza che chi sa di non essere ospite gradito abbia il buon gusto di starsene lontano. A tutti gli altri: ben ritrovati!

martedì 9 dicembre 2008

L'importante è esagerare

Ancora sulla pseudorealtà e sulla follia che si è impadronita di un intero popolo (il nostro): ieri sera ho un po’ orecchiato (niente di più, mi stavo voluttuosamente sparando un fumetto di Dampyr) la trasmissione di Lerner su La Sette, l’Infedele; un servizio diceva quello che le persone dotate di buon senso vanno ripetendo da secoli, e cioè che l’Italia è un paese complessivamente a bassa criminalità, come attesta il numero di crimini violenti in continuo calo da decenni e inferiore a quello della maggior parte degli altri paesi occidentali; che gli immigrati non sono poi questa banda di masnadieri, e anzi – aggiungo io – i regolari delinquono in media cinque o dieci volte, non me lo ricordo esattamente, meno dei nativi italiani; e che comunque, in barba ai babau di Bossi, Fini e compagnia ululante, gli sbarchi di clandestini sono più che raddoppiati, negli ultimi mesi. Solo che di queste cose adesso non si parla più: improvvisamente sembra tutto sparito: le rapine in villa, l’assalto dei barbari alle coste, i rapimenti di bambini da parte dei Rom; e si tace – ovviamente –di tanti fatti: ad esempio, che è stata prosciolta anche la ragazza Rom incriminata a Napoli per le urla di una madre isterica, episodio a causa del quale un campo nomadi fu dato alle fiamme: e così fanno più di venti anni che, nonostante le segnalazioni ricorrenti, non viene documentato alcun rapimento ad opera di nomadi.
E’ esagerato, a fronte di questi fatti (e ribadisco: fatti, non percezioni isteriche) definire criminale il comportamento della TV e della stampa italiane?
Io credo di no: in campagna elettorale sembrava che fossimo in stato d’assedio, con i Mori alle porte pronti a entrare per depredare, saccheggiare, sgozzare, squartare, stuprare, terrorizzare; il tutto a beneficio di un signore che sedeva all’opposizione, e che però aveva lo stesso il controllo totale di tre canali televisivi suoi e tre (teoricamente) dello Stato. Questo tizio sull’isteria collettiva che tanto abilmente ha fomentato ci ha vinto le elezioni, e ora si può anche permettere di fare ministro la sua cavallina senza che si levi un fiato in giro, tanto può l’infatuazione collettiva di sessanta milioni di innamorati sospirosi.
In breve: la TV e la stampa hanno deliberatamente alterato i fatti, dipinto una realtà che non esiste; lo hanno fatto per mesi e lo fanno ancora, invertendo semplicemente il segno del messaggio che intendono amplificare: prima eravamo sotto assedio in un paese con gli indici di criminalità più bassi d’Europa, adesso siamo in un ventre di vacca (portafogli compresi) nel bel mezzo di una crisi economica globale; e non corriamo rischio alcuno per la salute e la sicurezza, pur non facendo assolutamente nulla né per il clima, né per l’ambiente, né per l’edilizia scolastica: quanto accade di sgradevole è riconducibile alla categoria “tragica fatalità”.
La storia è stata già riscritta: Craxi, il ladrone morto latitante dopo aver depredato il paese con la sua banda e averlo messo al tappeto con l’esplosione del debito, è ora santo e martire, omaggiato dal premier e da buona parte dell’opposizione; il pool di Mani Pulite, appena quindici anni fa acclamato da un popolo intero, è responsabile della fine “di un’epoca di benessere”, sono sempre parole del nano alfa.
E i media che fanno? Per caso ripropongono i fatti di allora, o ne tentano quanto meno una interpretazione critica? Ma quando mai, meglio accodarsi e suonare la grancassa.
Insomma, viviamo in un mondo e ci comportiamo come se vivessimo in un altro; i media non si impegnano minimamente per smascherare l’imbroglio, e anzi ne sono il centro produttore. E allora torniamo a chiederci: è proprio esagerato definire criminale il comportamento di questi organi di propaganda? E chiamare regime la forma di governo che ci ritroviamo?
Sarà che a me esagerare piace, ma sono proprio queste le parole che userei.

venerdì 5 dicembre 2008

Eversione da stadio

Torniamo alla politica, dedicando qualche riga a un tema immenso per le implicazioni sociali che si porta dietro.
Chi dorme sonni tranquilli pensando che in Italia, qualunque cosa accada, non siamo a rischio di regime, secondo me dovrebbe riflettere su cosa succede ogni domenica negli stadi e mettere in fila pochi semplicissimi fatti, che provo ad elencare:
1) dopo la fine del terrorismo (quello residuale fa male, ma è solo l’illusione di un manipolo di poveracci) il tifo violento è diventato l’unica forza antagonista dotata di capacità militari. Se qualcuno ha dei dubbi, provi a pensare a cosa accadde il pomeriggio dell’omicidio di Gabriele Sandri, il tifoso della Lazio ucciso in un autogrill da un poliziotto: in poche ore formazioni ultras teoricamente rivali misero a ferro e fuoco caserme di polizia e carabinieri in tutta Italia, dimostrando una capacità di coordinamento che non è certo stata improvvisata; come e quando si sono addestrati a muoversi tutti insieme contro uno stesso obiettivo? E soprattutto: perché?
2) Quanto detto sopra rende evidente che le diverse formazioni sono sì antagoniste tra loro la domenica, ma condividono gli stessi valori e individuano quali nemici gli stessi soggetti: lo stato di diritto, a cui sarebbe spettato il compito di fare giustizia di quell’omicidio; i neri (pensate ai buuuhhh che si levano dalle curve all’indirizzo dei giocatori di colore); le minoranze in genere; i rossi (non esistono frange ultrà di sinistra, sono quasi tutti schierati su posizioni neonaziste). Del resto, basta ascoltare qualche intervista – ogni tanto ne va in onda qualcuna – per rendersi conto che questi tipi usano lo stadio come una palestra, per tenersi in allenamento, ma non è che si odino davvero, tra loro: la solidarietà violenta dimostrata proprio con il caso Sandri ne è la prova. E allora, di nuovo, la domanda: perché, a quale scopo questa gente si addestra e si esercita?
3) Molti dei criminali di guerra della ex Jugoslavia, sia in campo serbo che croato, venivano dalle curve. Ricordo, una decina di anni fa, uno striscione terribile all’Olimpico: “Onore alla tigre Arkan”; Arkan era il braccio armato di Milosevic, il genocida serbo, ed era amico di Mihajlovic, che allora giocava nella Lazio e aveva chiesto ai tifosi di issare quello striscione. In quella guerra venne fuori anche un piccolo scandalo subito messo a tacere: mercenari italiani schierati con entrambe le parti, quasi tutti provenienti da frange ultras del tifo da stadio.
4) Come è possibile che uno stato che è riuscito a venir fuori dagli anni di piombo non abbia la forza di spezzare letteralmente le reni a questa gente? La risposta, secondo me, è che non vuole: questi soggetti sono la nuova gladio, sono il serbatoio a cui attingere per la costituzione di ronde e corpi paramilitari, se dovesse – Dio ce ne scampi – venire l’ora.
Insomma, ragazzi: io penso davvero che qui c’è chi si sta preparando a fare il colpo grosso, e non da oggi; per ora non ce n’è bisogno, il popolo sovrano è abbondantemente rincoglionito dalle TV e dai reality e il nano alfa può imperare con il sorriso sulle labbra e il plauso di tutti o quasi; c’è però da vedere cosa succederà se e quando, stretta nella morsa della crisi, qualche frangia un po’ meno accomodante dovesse organizzarsi con proteste di piazza, scioperi e disobbedienza. E’ un film che dovremmo aver già visto, negli anni venti, con dei tizi in camicia nera che prima si sono messi al posto dei macchinisti scioperanti alla guida dei treni, e poi sono passati a guidare i carri armati. Ma si sa, in Italia di memoria storica non ce n’è.

Dove ho già visto quel volto?

di Cristiana Capagni - pubblicato su La Voce Democratica – n. 17-31/01/08

Camminando per la strada, entrando in banca, in un bar, nei negozi, non è raro provare la sensazione di aver già visto il volto di un passante, di un altro avventore. In parte ciò accade perché i lineamenti del viso umano, per quanto combinati fra loro in una incredibile varietà, sono riconducibili ad alcune tipologie: insomma, molte persone si somigliano davvero almeno un po’. Vi è poi l’opportunità – tanto maggiore quanto più è piccola la città in cui abitiamo – che effettivamente non sia la prima volta che incontriamo quella persona che ci è sembrato di aver già visto.
Sgomberato il campo da queste due possibilità, ve n’è una terza, per così dire più ‘moderna’: che su alcune persone siano intervenute delle modificazioni volontarie ed omologanti. Lo stile riscontrabile su diverse pazienti, pur senza che esse frequentino lo stesso chirurgo estetico, è l’espressione della moda del periodo. Perciò non è così peregrino incontrare più signore âgé che esibiscano gli stessi zigomi sporgenti, la stessa piega che rende le labbra forzosamente sorridenti, le stesse palpebre semichiuse che probabilmente vorrebbero conferire (ed è un “vorrei ma non posso”) agli occhi lo sguardo sognante dell’ineguagliabile Marylin, finendo molto spesso per dimostrare molti più anni di quelli che hanno effettivamente compiuto proprio a causa dei pesanti restyling cui si sottopongono, che le snaturano completamente e regalano a chi le incontra la fastidiosa sensazione di vivere in una società silenziosamente invasa da cloni, oltretutto anche un po’ macabri.
Viviamo in un'epoca in cui siamo governati da (falsi) ideali di bellezza, salute, successo, ricchezza... ma la vita, in quanto tale, contiene tutto ciò ed insieme il suo contrario che fa da contraltare.
Non può esistere il giorno senza la notte, né la salute senza la malattia, né il sorriso senza la tristezza o la gioventù senza la vecchiaia.
Abbiamo paura di accettare che sia così, nascondiamo la testa sotto la sabbia, cerchiamo di costruirci un'esistenza al riparo da qualsiasi dolore. Ed in questo modo viviamo una vita finta. Tanto il dolore e la delusione arrivano comunque. Allora basterebbe saperli accettare ed elaborare nel modo migliore. Servono a crescere. Così come serve a crescere la consapevolezza che non siamo eterni, se riusciamo ad ammetterlo con la maggiore serenità possibile.
Ma gli anni che stiamo vivendo sono anni di timore della morte, sono anni illuminati da una falsa luce e dunque assai bui.
Nel momento in cui avremo ben presente che il tempo che ci è concesso ha un limite, sia pur ignoto, allora vedremo ogni cosa sotto una luce diversa, più vera, e non avremo desiderio di sprecare il nostro tempo impiegando energie in fatue attività né destinando i nostri pensieri a cose del tutto inutili e senza senso. Forse smetteremo di rincorrere una finta eterna giovinezza per vivere finalmente il momento che ci è dato. Anche questo serve a crescere. E più cresceremo, più diventeremo capaci di indirizzare le nostre scelte in modo positivo, facendo un salto di qualità. E non avremo vissuto invano.

giovedì 4 dicembre 2008

Torna Cristiana...

... e ci riporta ad un tempo che pare tanto lontano, ormai... l'estate... Sigh! Le spiagge saranno state pure affollate, ma adesso le rimpiango parecchio, confesso.
Comunque, andate al posto sotto a questo, e buona lettura.

GPZ

Non rompeteci le bolle!

di Cristiana Capagni – pubblicato su La Voce Democratica 7-13 novembre 2008


Notoriamente la comunicazione avviene attraverso diverse modalità, non necessariamente linguistiche: ciascun essere vivente può assumere atteggiamenti estremamente eloquenti ed esprimere chiaramente il proprio stato d’animo attraverso i gesti, la postura, il modo di occupare o gestire lo spazio fisico che lo circonda.
Ogni essere ha un proprio spazio, che gli studiosi di semiologia definiscono zona prossemica, comunemente detta anche “bolla”, che si estende al di là del volume occupato dal proprio corpo.
Tra gli esseri umani la distanza interpersonale fisica è strettamente correlata alla distanza sociale: studi antropologici hanno determinato che esistono quattro zone prossemiche, quattro bolle la cui grandezza è inversamente proporzionale al grado di intimità con gli altri. Naturalmente la grandezza di queste bolle subisce l’influenza di fattori esterni quali cultura, nazionalità, sesso, ecc.
Le quattro bolle definite e misurate dagli studi sono le seguenti: la prima, la più piccola, è quella dello spazio intimo, riservato a partner o figli, e ha approssimativamente un’ampiezza tra gli zero e i 45 cm; la seconda, un po’ più estesa, è lo spazio che accettiamo di condividere con gli amici e va dai 45 ai 120 cm circa; la terza bolla, che va dai 120 cm ai tre metri e mezzo, è quella relativa ai conoscenti; infine la quarta, la più ampia, va oltre i tre metri e mezzo ed è la bolla della distanza pubblica.
L’esistenza di queste bolle è rivelata dall’imbarazzo o dal fastidio che solitamente si prova dovendo subire una forzosa distanza ravvicinata, ad esempio in ascensore con degli estranei o se uno sconosciuto entra in un imprevisto contatto fisico.
Pertanto, si presume che ciascuno dovrebbe sentirsi a proprio agio collocandosi in modo tale che le varie distanze vengano rispettate.
Ecco perché sfugge alla comprensione di chi scrive il motivo che spinge alcuni esseri umani ad infrangere questa meravigliosa teoria delle bolle: perché mai su una spiaggia spaziosa e assai poco gremita la comitiva chiassosa e maleducata scelga di accamparsi proprio accanto all’ombrellone sotto il quale oziano silenziosi e tranquilli villeggianti immersi nella lettura; perché in un cinema semideserto la coppia di amiche che commenterà ad alta voce l’intera pellicola come se si trovasse nel salotto di casa, decida di sedersi in prossimità di posti già occupati; perché quando ci si mette in fila le probabilità di trovare alle proprie spalle qualcuno che imporrà il contatto fisico spingendo o appoggiandosi siano altissime.
La natura umana rimane un mistero insondabile…

mercoledì 3 dicembre 2008

The Monkey race

Concludiamo il resoconto dell’avventura inglese (in realtà già finita da una settimana) saltando direttamente all’ultimo giorno; dove si narra dell’epica sfida dei sette (team) che sono scesi in campo a fronteggiarsi sul terreno per tutti infido dell’asset allocation.
Dunque, la cosa funzionava così: nella solita sala in cui abbiamo patito per sette giorni ponderosissime e altrettanto pallose presentazioni, l’ottavo giorno abbiamo trovato – senza preavviso alcuno – un tabellone all’ingresso che recava l’enigmatico titolo di “portfolio in peril” e poi, dentro, sette tavoli tondi con sopra scritti nomi come “I gondolieri”, “Carnevale”, “San Marco” eccetera; trattandosi con ogni evidenza di una simulazione di portafoglio in uno scenario economico - diciamo così - tempestoso, la scelta della città dell’acqua alta era effettivamente pertinente, richiamando originalissime metafore quali “acqua alla gola”, “nave che affonda”, e via così.
C’era pure il megaschermo, che a intervalli regolari sparava finti tiggì economici con le notizie in base alle quali si dovevano prendere le decisioni di investimento.
Infine, un tocco di sadismo: tra i partecipanti, seduta a nessun tavolo, c’era La Scimmia. La scrivo con la maiuscola, perché La Scimmia è l’incubo che incombe su ogni onesto pedalatore della finanza: qualsiasi strategia di trading uno proponga, deve dimostrare di essere almeno in grado di battere La Scimmia, essendo La Scimmia l’ovvia metafora del trader che compra e vende a casaccio (ma io non sono così sicuro che una scimmia vera farebbe davvero così, al gran casinò della finanza globale; e soprattutto non sono sicuro che non siano invece i trader, a comprare e vendere a casaccio).
Ora capirete, un conto è arrivare ultimi su sette, e passi: al ritorno in azienda si può sempre dire di essere incappati in un’accolita di fenomeni; ma come giustificare un eventuale arrivo magari manco ultimi, e però alle spalle della Scimmia?
Alla sola vista del terribile cartello posto su un tavolo vuoto siamo sbiancati tutti, compresi quelli provenienti da paesi che garantiscono quella che il nostro mitico premier definisce abbronzatura naturale (a ciò che si dice di lui in giro per il mondo dedicherò un post a parte).
Insomma, per farla breve: solito briefing, con livelli di tensione palpabile, peggio che alle corse dei go-kart di sabato; tiggì finto, pronti, via!
Ed ecco menti eccelse scatenarsi in arditissimi ragionamenti macro e micro, su economia e finanza, e il tasso di interesse della banca centrale vietnamita, e il future sul caffè honduregno, e la supercazzola… E al primo giro, ecco che l’incredibile si verifica: perdiamo subito il 10% del capitale, e poco male, perdono quasi tutti; il dramma vero è che siamo subito ultimi, e La Scimmia è in fuga davanti a noi!
Secondo tiggì, di nuovo pronti, via! Nervosismo alle stelle, tempo che incalza, consultazioni convulse, compulsare frenetico di statistiche… Tutto inutile; arriviamo disfatti e trepidanti al verdetto della borsa, e vediamo le chiappe della scimmia sempre più lontane davanti a noi, e lei corre, corre sempre più veloce, e noi arranchiamo in fondo, già tutti a pensare a come fare per non dire, per non raccontare l’onta…
E poi per brevità non vi racconto il resto, ma sappiate, o lettori miscredenti, che le cose sono andate esattamente al contrario di come tutti vi aspettate: dal terzo giro in poi abbiamo vinto tutte le manche, nessuna esclusa, e l’ultima è stata una cosa da cardiopalmo: davanti a noi (che eravamo I Gondolieri) ci sono soltanto quelli del Danieli, e proprio di un’incollatura: e che ve lo dico a fare, li abbiamo bruciati proprio sulla linea d’arrivo, di un’inezia, e abbiamo vinto noi, salti di gioia, baci e abbracci, e pure una scatola di cioccolatini come trofeo! E vai che siamo dei fenomeni – pacca sulla spalla -, ma hai visto come abbiamo intuito subito la recessione in Cina, e poi la manovra di copertura, lo sapevo che il dollaro scendeva anche se tutti scommettevano al rialzo, e bla e bla bla bla bla!
BLA!
Per la verità, a me è parso più che altro che abbiamo avuto un culo mostruoso; alla luce delle notizie che, di tiggì in tiggì, giustificavano a posteriori le salite e le discese del nostro portafoglio, c’era davvero poco da intuire: recessione in Cina, sì, ma causata da un terremoto, e il dollaro crollava in seguito a non mi ricordo quale cataclisma geopolitico, e così via. Che è pure una bella lezione per tutti quelli che pensano che un gestore capace di fare profitti per un lungo periodo è bravo, e gli affidano tutti i propri risparmi: random walk chiamiamo questo fenomeno noi statistici, passeggiata aleatoria; si caratterizza per poter andare infinitamente su e anche infinitamente giù, infilando a volte serie consecutive di su-su-su o giù-giù-giù da far straparlare la gente di “chiare tendenze rialziste”, o ribassiste, mentre in realtà il mondo se ne va a casaccio e i risparmi a puttane.
E così la nostra gara, per il disappunto degli altri membri del team, io l’ho ribattezzata The monkey race: non c’era una sola scimmia, ce n’erano sette vere più una virtuale, e la gara è consistita non nel vedere chi era il gestore più bravo, ma solo quale fosse la scimmia più fortunata; ma, purtroppo…The trouble with the monkey race is that even if you win, you're still a monkey… Ma questa l’ho presa in prestito da Lily Tomlin che la disse a proposito di The rat race, dove i ratti stanno al posto delle scimmie.

martedì 2 dicembre 2008

Al rogo al rogo!

Oggi il Vaticano si è espresso contro la depenalizzazione dell’omosessualità, come a dire che ritengono giusto che i gay vadano in galera e siano magari frustati, in quei paesi dove questo è consentito e anzi prescritto per legge.
Hanno però precisato, bontà loro, che “nessuno vuole la condanna a morte dei gay”, per bocca di non mi ricordo quale cardinale.
E’ la migliore risposta a quanti vanno blaterando – Marcello Pera ne è il portabandiera - che per arginare l’integralismo islamico dovremmo stringerci intorno alla nostra (ma nostra di chi? Mia no di certo) religione, che è illuminata e tollerante. E se gli dici, a questi tipi, che nei secoli i preti hanno bruciato, torturato, frustato, terrorizzato, ammazzato, ti rispondono che sono fatti del passato. Del passato, sì, ma non certo grazie alla loro capacità di emendarsi: se abbiamo superato certi orrori è stato solo per la forza delle istituzioni che hanno saputo contrapporsi al clericalismo, per la capacità di penetrazione del pensiero illuminista, ma anche di quello liberale e di quello marxista; fosse stato per loro, avrebbero continuato allegramente a squartare i miscredenti. Come, con tutta evidenza, ancora sognano di fare. E magari a squartarli non ci riusciranno, ma a dargli (darci) una bella razione di manganello prima o poi ci arriveranno, grazie a questi geni che ci invitano ad appecoronarci davanti a lor signori. Che si sa, gli islamici sono pericolosi, meglio i nostri. Personalmente, però, confesso di non riuscire a provare sollievo alcuno, quando mi frustano, dalla consapevolezza che a farlo è un prete, e non un mullah.

domenica 30 novembre 2008

Quei temerari sulle macchine da corsa


Alla fine dell’avventura inglese, il rammarico è di non aver avuto tempo a sufficienza per aggiornare il blog in diretta, come avevo iniziato a fare. OK, mi accontenterò di fare un sunto delle imperdibili (dis)avventure del Gattopuzzo a Londra, anche se certi episodi avrebbero meritato ben altro rilievo.
Cominciamo dal fine settimana, in cui noi sessanta prigionieri provenienti da trentacinque paesi diversi siamo stati messi in semilibertà. Solo semi, perché sabato ci hanno portato a fare le corse coi go kart, che non era come stare in aula ma non necessariamente era un divertimento… Ma, bontà, loro, non era obbligatorio, per cui tutto quello che ne è conseguito devo onestamente ammettere di essermelo andato a cercare.
La partenza (del pullman, non ancora della corsa) era alle 11, e dopo nemmeno mezz’ora eravamo già alla pista; il primo impatto con una cosa così non è proprio tranquillo: uno si immagina la macchinina a pedali della sua infanzia, e invece si trova ad ammirare dei mostriciattoli piuttosto lunghi e larghi che assomigliano pericolosamente, nell’estetica, ai mostri veri della formula 1; e non vanno per niente piano.

Il seguito non allenta la tensione, anzi: ci portano negli spogliatoi, ci danno tute caschi e guanti, ci fanno sedere tutti intorno a un tavolo e arriva un tizio molto smart – pure lui in tenuta da aviatore, chiaramente – che ci tiene un briefing che dovrebbe essere tranquillizzante, e invece è terrificante. A parte che è brasiliano e parla un inglese velocissimo e incomprensibile, c’è il problema che le regole da seguire durante questa corsa (perché proprio di competizione si tratta, non di giretti di pista come tutti avevamo creduto) sono talmente tante che è impossibile ricordarsele tutte, e non è che sia proprio innocuo fermarsi nel posto sbagliato o ripartire in un momento inopportuno, con il pericolo che ti piombi addosso qualcuno a ottanta all’ora mentre tu sei su un trabiccolo del tutto scoperto…


Vedo Wioletta, la ragazza polacca seduta accanto a me, impallidire progressivamente fino a confondersi con la parete: trattasi di creatura eterea e soave, già quasi trasparente di suo, e mi era sembrato strano assai che sì leggiadra creatura potesse trovare a sé confacente passatempo tanto ruvido e materiale; ad un certo punto mi tocca timidamente il gomito, la voce è quasi strozzata: - Maurizio, It was a terribile mistake, I can’t do these things, I’m very worried…I had been unwise... e io lì, da vero uomo, a rincuorarla insieme ad altri veri uomini e qualche vera donna – Don’t worry, Wioletta, it’s not as terribile as it seems, you will see… Now all is difficult for you, but when you will be driving you will enjoi, I am sure…- Cioè, questa è la trascrizione più o meno letterale di ciò che le ho detto nel mio inglese non proprio oxfordiano, non so se per lei sia stato intelligibile, come io spero. Del resto, erano una montagna di spacconate, perché io ero preoccupato quanto e più di lei, e facevo una fatica tremenda anche solo per non scappar via urlando. Insomma, com’è come non è, ci mettono in team insieme, io lei un lituano e un cinese, tale Wang, che aveva riso per tutto il tempo del briefing.
Il cinese si rivela subito pippa di proporzioni colossali: manco parte che già sta dietro a tutti, poi fa testacoda, poi alla fine non lo vedo più e non so che fine abbia fatto; io e il lituano, superata la paura iniziale, cominciamo a prenderci gusto e iniziamo la rimonta, attestandoci dignitosamente nella parte medio alta della graduatoria, subito dietro quelli che già ci avevano rifatto, e che però confesseranno solo a corsa finita; e Wioletta? Wioletta, la nostra diafana mascotte, all’abbassarsi della bandiera è schizzata fuori dalla griglia come un missile – per la paura, ha avuto l’ardire di dirmi poi -, si è posizionata tra i primi e da quel momento io di lei ho visto solo le ruote posteriori, e sempre più lontane. Ogni tanto davo un’occhiata al tabellone, e sconsolato constatavo che mi dava due secondi al giro, giro dopo giro, finché poi non l’ho proprio vista più.

E, mentre battagliavo per la settima o la nona posizione, a seconda dei giri, mi chiedevo pure che fine avesse fatto il cinese… Non fosse stato per lui, con la performance astronomica dell’angelo da corsa (così abbiamo ribattezzato la nostra polacchina) e quella più che dignitosa (fino a quel momento, almeno…) mia e del lituano avremmo potuto essere in testa… E invece quello era disperso, e noi penultimi! E allora dacci dentro Gattopuzzo, vai che ce la fai, dai che quelli davanti non sono poi così lontani, pigia senza paura sull’acceleratore che li puoi prendere… E infatti li ho presi: proprio frontali, dopo un doppio testa coda carpiato con salto di chicane e crash finale con avvitamento sulle due macchinine che mi precedevano e che nel volo ho superato, tagliandogli la strada attraverso la chicane. Risultato: finisco sì davanti a loro – in maniera non proprio sportiva , essendo stato il più lesto a ripartire -, ma la prodezza ci procura solo il terzultimo posto (al team) e un ginocchio come una zampogna (a me). Del cinese, nessuna notizia fino a dopo il traguardo: si era fermato e poi era ripartito con andatura da torpedone, per le ire dell’angelica fanciulla, che ha rinunciato a morsicarlo solo grazie all’intervento di peace enforcing del bravo lituano.

Conclusione della gloriosa giornata: Gattopuzzo in camera, sdraiato su poltrona reclinabile con poggiapiedi, urlante di dolore con sul ginocchio il ghiaccio dello champagne – e sì, in camera c’era anche quello, da quanto costava ho temuto che anche per l’uso del solo ghiaccio mi avrebbero estorto come minimo una ventina di pound, evento per fortuna non verificatosi.
Più tardi, verso le sei di sera, ho radunato quello che restava del coraggio (e dell’orgoglio) e mi sono avviato dignitosamente verso la hall dove ci attendevano per portarci a cena, ululando tra me e me per non zoppicare. E chi c’era nella hall? Ma Wioletta, e chi se no? Che stava lì a pavoneggiarsi davanti a un nugolo di maschi giovani, celibi e adoranti, evidentemente sedotti dai modi da dominatrice dell’angelica creatura, che appena mi vede mi scocca e un gran sorriso e poi, rivolta all’audience –I must to say to you, I have been able to do all thanks to Maurizio… Without his boost, I couldn’t did anything!
‘Tacci tua, ‘tacci…

sabato 22 novembre 2008

Io e la Tina

Stamattina, essendo sabato, il vostro Gattopuzzo gode della semiliberta’: fino alle 11.15 puo’ tranquillamente farsi gli affari suoi, che comprendono tutto tranne la colazione: i gentili organizzatori, infatti, non offrono questo servizio nei giorni in cui la conferenza viene sospesa, e a battere palmo a palmo tutta Canary Wharf non si trova un bar aperto che e’ uno, prima delle dieci. Certo, ci sarebbe quello dell’albergo, ma poi lunedi’ mattina, alla relazione sui mutuatari insolventi, potrei offrirmi come esempio antropologico vivente dell’originatore della crisi dei mutui, dell’untore. Una sorta di paziente zero, insomma. E aspettiamo le dieci, allora. Poi, a colazione fatta, verremo di nuovo imbrancati e costretti a una di quelle attivita’ che fanno tanto fico in certi ambienti, e che pero’ stavolta trovo divertente pure io: andiamo a correre su una pista di go-kart. Almeno spero che sia divertente, perche’ il mio ultimo go-kart aveva i pedali e io avevo cinque anni, non ho seguito l’evoluzione tecnologica che c’e’ stata in mezzo e magari il mostro rombante che mi metteranno sotto il sedere fra un po’ potrebbe essere difficile da domare, chissa’.
In questi due giorni in cui non ho avuto modo di tenervi aggiornati non e’ successo granche’; unico episodio degno di nota, il dialogo surreale tra il rustico Gattopuzzo (che, sia detto in confidenza, non e’ esattamente un madrelingua inglese) e una delle hostess del convegno: “will you join us for ‘tina’?” – “Sorry?” – “I asked you if you will join us for ‘tina’”…
Ohibo’, e mo’ chi e’ ‘sta Tina? E che vuole da me? Mica mi vorranno offrire pure l’escort... E perche’ poi 'join us'… Ma che fanno, le ammucchiate?
Il GPZ, che e’ un tradizionalista fedele e dalle sconosciute non accetta le caramelle - figuriamoci il resto -, se non fosse stato assolutamente incredulo avrebbe cominciato a sudare freddo e ad arricciare il pelo; ma poi e’ intervenuta in suo aiuto una seconda hostess, evidentemente allarmata dal soffiare felino che deve aver sentito alle sue spalle: “Ok sir, my colleague is asking you if you will come with us to Hush, the restaurant where we will have dinner”.
Ahahhh…. Pero’, che cavolo: vabbe’ che il mio orecchio non e’ proprio quello di un interprete, ma ‘tina’ per ‘ dinner’ mi pare quasi dialettale… O sbaglio? Ah, le sofferenze dei gattopuzzi emigranti…

mercoledì 19 novembre 2008

La terza via

Primo giorno a Londra, e prima sospresa: niente disavventure. Che e’ davvero strano, dopo la piccola odissea di due anni fa (che un giorno vi raccontero’) e, soprattutto, dopo le difficolta’ pressoche’ insormontabili che ho trovato nel fare la valigia.
Lo dico senza pudori: il gattopuzzo, come del resto e’ adeguatamente spiegato nell’intestazione di questo blog, e’ uno spirito selvatico per antichissimo lignaggio; un mondo impietosamente cangiante e il tramonto della ruralita’ lo hanno costretto a riciclarsi nell’ambiente urbano (financo nella business community internazionale!) ed e’ anche riuscito a mimetizzarsi piuttosto bene nella fauna globale, ma resta fondamentalmente diffidente nei confronti di questi ambienti rarefatti e artificiali, e spesso si trova a soffiare il proprio disappunto, proprio come i felini di fronte all'odiato nemico abbaiante.
Gia’ e’ un indicibile sacrificio, tutte le mattine che ha fatto Dio, ficcarsi dentro una giacca e annodarsi una cravatta, eppero’ ormai a quello si e’ abituato, salvo concedersi svariati casual Friday anche quando venerdi’ non sarebbe (dove per casual si intende casual vero, con i jeans, per l’orrore dei suoi capi); capirete, pero’, che uno che si mette un vestito con lo stesso entusiasmo con cui indosserebbe una tuta da palombaro non sprechi molta fantasia nell’ideare varianti: e infatti il vostro GPZ si e’ comprato una serie di abiti sciccosi, molto ingessati, assolutamente impeccabili, e li indossa senza concedersi nemmeno una variante sulla cravatta, per paura di sbagliare accostamento.
E che dovrebbe fare uno cosi’, che si veste da ufficio come se camminasse sulle uova, alla lettura dell’invito in cui si raccomanda dressing code: business casual?
Ma va nel panico, mi pare assolutamente ovvio! Ho passato una serata intera, dalle sette a mezzanotte (con pausa cena, pero’) a smontare e rimontare il mio guardaroba, che come lo giri lo giri sempre e solo due dressing code tira fuori: o business o casual, ma niente che possa assomigliare a questa agognata terza via, che del resto neppure Berlinguer riusci’ a trovare.
Che fare? Rapido giro in internet, dove scopro che al business casual sono dedicate decine di migliaia di pagine, e anche di immagini; il dibattito verte sul corduroy (velluto a coste, che ce l'avrei pure): e’ o non e’ business casual? Certo, nelle jpeg che scarichi dalla rete lo indossano certi figaccioni che pure se gli metti addosso la giacchettina del nonno contadino sembrano neglettamente alteri, diceva Manzoni; ma io? Non e’ che con i gattopuzzi lo specchio funziona al contrario e rimanda l’immagine del nonno contadino anche se vado a spogliare l’emporio Armani?
Nel dubbio decido di astenermi; tento di promuovere accoppiamenti incestuosi tra la giacca con cui mi sono sposato e un paio di jeans seminuovi, o tra l’ultima grisaglia che mi sono comprato e un paio di pantaloni di tela grezza, ma niente: quelli proprio non ne vogliono sapere di stare assieme, l’amore non sboccia, e che vuoi farci? Se il magnetismo non c’e’…
Alla fine, esausto e sommerso di tessuti manco fossi in un sottoscala di sartine cinesi, mi arrendo: mi porto il business e mi porto il casual, e parto con l’unica improbabile accoppiata che sono riuscito a tenere insieme, jeans Timberland (pero’ marroni), giacca marrone superstite da vestito dimezzato, maglioncino verde.
Arrivo, mi vengono a prendere, mi portano in albergo: manco un’ora per riprendersi e c’e’ il cocktail di benvenuto, dal quale sono per l’appunto reduce or ora che sto scrivendo. Sono andato cosi’ come avevo viaggiato, e sapete come si erano vestiti i temutissimi figaccioni?
Allora, un africano si era messo in costume tradizionale, e passi, perche’ era davvero elegantissimo; l’ottanta percento pareva (ma pareva soltanto) in tiratissima tenuta business, perche’… il casual l’avevano spostato tutto sulle scarpe, che esibivano fogge assolutamente improbabili; gli orientali erano in tenuta da business, ma con accozzaglie di colori che manco a Carnevale. Si salvavano ovviamente le signore di ogni nazionalita', vuoi per un minimo di buon gusto in piu’ rispetto ai maschietti, vuoi per la maggiore varieta’ del loro abbigliamento.
Insomma, alla fine il GPZ, con la sua tenuta sobria ma non del tutto sbracata, ha fatto davvero un figurone!
Resta da vedere come mi vestiro’ domani, dato che l’unica cartuccia me la sono sparata questa sera…

martedì 18 novembre 2008

Gattopuzzo migratore

L’anno scorso il GPZ volò a Londra: ne scaturirono una serie di disavventure esilaranti, tutte documentate da accuratissime e-mail scritte là per là, e ora custodite gelosamente dalla signora Cucciola, in attesa di probabile pubblicazione, uno di questi giorni, quando non avrò la voglia e la presunzione di scrivere qualcosa di nuovo.
La notizia è che l’avventura sta per ripetersi: domani mattina il vostro magnifico GPZ si getterà tra le braccia della perfida Albione, ospite nientepopodimenoché di Morgan Stanley (se non fallisce prima, of course: dirlo non sarà elegante, ma di questi tempi un’altra merchant bank che salta in aria non mi stupirebbe affatto).
Le disavventure, in realtà, sono già iniziate: mai valigia è stata più difficile di questa. Il perché? Ve lo dirò al ritorno, my beloved friends… Per ora pazientate: giovedì 28 sarò di ritorno, e vi prometto un resoconto con i fiocchi!
Bye

GPZ

giovedì 13 novembre 2008

La spia dell’istruzione

di Cristiana Capagni

Un buon criterio per valutare il livello di civiltà di una nazione è verificare se e quanta attenzione istituzioni e cittadini dedicano a sanità ed istruzione. Un’altra spia è il trattamento degli animali e leggi a loro tutela e salvaguardia.
Nonostante la sanità nel nostro Paese venga assai spesso criticata e a dispetto dei casi eclatanti di malasanità, dobbiamo tuttavia riconoscere che nel suo insieme funziona. Con ampi margini di ‘migliorabilità’, ma funziona.
Non può dirsi esattamente la stessa cosa per quanto riguarda il trattamento degli animali.
Anche per loro, come per i malati, molto ci si appoggia allo straordinario operato dei volontari.
Per quel che riguarda invece l’istruzione, bersagliata dai tagli ai bilanci, il discorso è ancor meno roseo.
La diserzione scolastica nel nostro Paese è una realtà - secondo alcune fonti in costante aumento - intollerabile sotto il profilo etico e morale ma anche dal punto di vista pratico: non potendo contare su preparazione e cultura, qual è il futuro che attende il nostro Paese?
Se un certo potere può auspicare la proliferazione di una massa incapace di essere critica, nel complesso il costo sociale dell’abbandono scolastico è altissimo e si paga anche – non solo – in termini di criminalità.
Invogliare allo studio non può prescindere da alcune elementari regole, prima fra tutte che il conseguimento di un diploma abbia effettivamente valore. Perché ciò avvenga, la selezione deve essere piuttosto rigida: i cosiddetti diplomifici hanno avuto come unica conseguenza quella di abbassare il valore del diploma conseguito. Ciò ha due risvolti: la necessità di ottenere un numero sempre maggiore di riconoscimenti (master, specializzazioni) nella speranza di essere competitivi da una parte, e il depauperamento della qualità di quanto appreso durante la formazione scolastica dall’altra. Uno studio piuttosto recente evidenziava come il livello qualitativo di un diploma di maturità conseguito attualmente corrispondesse a quello di un diploma di scuola media inferiore degli anni ‘Settanta.
Ma per invogliare allo studio occorre anche che esso abbia dei costi sostenibili per le famiglie. In un Paese civile e moderno, almeno la scuola dell’obbligo dovrebbe essere gratuita. Non è così in Italia, dove ciascuno studente al suo ingresso alla scuola media, soltanto per i libri, costerà alla propria famiglia mediamente trecento euro, che diventano cinquecento al liceo. Non c’è dunque da meravigliarsi se nelle fasce non troppo agiate della popolazione l’abbandono scolastico è così frequente.
Eppure la cultura è fondamentale alla formazione di individui coscienti e responsabili, il ragionamento difende le persone dal diventare facilmente manipolabili, la conoscenza consente di non cadere facili prede di assurdi slogan e di pericolosi comportamenti; motivo per cui una nazione che aspira ad un futuro florido dovrebbe avere tra le sue priorità la formazione culturale delle nuove generazioni, indipendentemente dal fatto che non possiamo diventare tutti avvocati o tutti medici. Forse alcuni si domanderanno perché mai un futuro meccanico dovrebbe discettare di Platone: è a costoro che vorremmo ricordare quanto la cultura aiuti ad aprire la mente. E la mente, come ebbe a dire Einstein, è come un paracadute: funziona solo se si apre.

martedì 11 novembre 2008

Le parole tradite

Su Lavoce.info (URL: ), che è un sito fondato e curato da molti importanti economisti e “scienziati sociali” in generale, c’è un commento di Edoardo Vianello sull’elezione di Obama che, rifacendo la storia delle elezioni americane, ad un certo punto recita: “[…] Dal 1980, la politica americana è stata dominata dall’alleanza costituita da Reagan. La base politica (“silent majority”) ha appoggiato questo programma economico e sociale molto conservatore. Lo stesso Clinton ha continuato molte politiche dei sui immediati predecessori. Per rafforzare le sue credenziali moderate, l’allora candidato Clinton diede il via libera per giustiziare un infermo di mente che si trovava nel braccio della morte in una prigione dell’Arkansas[…]”.
Credenziali moderate? Uno che fa giustiziare un infermo di mente?
Ecco, tra i tanti regali che tra poco chiederemo a Babbo Natale mi sa che dovremmo mettere anche un bel miracolo che restituisca alle parole il loro vero significato; da ormai molti anni a questa parte, infatti, accade che si separi sistematicamente la realtà dalla sua rappresentazione, per far digerire l’indigeribile a elettori, consumatori e lavoratori*. E così le guerre sono diventate operazioni di pace (peace enforcing), la tortura una “tecnica speciale di interrogatorio”, gli insulti razzisti “carinerie”, i repubblichini fascisti di Salò sono combattenti per la patria e uno morto latitante come Craxi è stato insignito dello status di esiliato. E ancora, questo gioco è capace di trasformare la Resistenza in una oscura pagina di guerra civile partigiana, un mafioso in un eroe (prerequisito essenziale: aver fatto lo stalliere del presidente del consiglio), il divieto di ricerca sulle cellule staminali in tutela della vita e chissà, magari anche la cacca in cioccolata (però assaggiate prima voi, io sono un po’ debole di stomaco).
Una volta un moderato era uno magari un po’ grigio, di quelli che difficilmente li vedevi in jeans ma neppure in giacca e cravatta; prediligevano il gileino di lana beige sopra la camicia e i pantaloni di flanella, andavano ogni tanto a messa la domenica e soprattutto erano costantemente impegnati a cercare la via di mezzo in ogni cosa, idealizzando quell’aurea mediocritas che cantava Orazio ed era però una cosa molto diversa dalla mediocrità come la intendiamo oggi. Del resto, la moderazione dovrebbe essere la qualità di chi rifugge dalle posizioni estreme, a rigor di logica. E allora, che c’entra con la moderazione uno che manda al patibolo una persona non in grado di intendere di volere? Anzi, come fa a definirsi moderato uno che è disposto a mettere a morte un altro, indipendentemente da chi è quell’altro?
La battuta di Moretti in Palombella Rossa è diventata un tormentone, negli anni: “chi parla male pensa male, e chi pensa male vive male!”, ma un sacco di gente proprio non ha capito quanto sia vera. Il linguaggio che usiamo, tra le tante altre cose, contribuisce a formare il nostro modo di pensare al livello più basso, quello di cui noi stessi siamo meno consapevoli, impregna le cose che diamo per scontate; e questo spiega cosa è probabilmente accaduto al povero Edoardo Vianello, l’estensore del pezzo che ho citato prima: a forza di sentir qualificare come moderati gli esponenti di un’accolita di pazzi che hanno portato l’Occidente in guerra e l’economia alla rovina, si deve essere convinto anche lui che gli estremisti sono gli altri, quelli che le guerre non le vorrebbero e possibilmente il prossimo vorrebbero evitare di ammazzarlo anche a casa propria.


* queste tre categorie dovrebbero in realtà saldarsi come le componenti di Jeeg robot d’acciaio in un soggetto unico chiamato cittadino, ma ormai questo non avviene più da tanto tempo e in fondo è un’altra storia, anche più grave di quella che stiamo raccontando, per cui lasciamola in serbo per un altro post.

lunedì 10 novembre 2008

La storia e il folklore

La gaffe del Berlusca su Obama abbronzato ormai l’hanno commentata tutti fino alla nausea. Io di mio non ci aggiungo niente, mi limito a riportare due commenti secchi e secondo me molto intelligenti fatti da due miei amici.
Francesco ha detto, parlando del coro indignato che si è levato dall’opposizione: “ma questi qui ancora non l’hanno capito che l’indignazione in questo paese fa solo ridere e ti fa fare la figura del trombone? Oltre tutto, chi si indigna quasi mai ha titolo per farlo, perché tutti hanno storie personali a dir poco imbarazzanti. Dovrebbero limitarsi ad un’alzata di spalle sprezzante, lasciarlo affondare nel ridicolo di cui si copre abbondantemente da solo, invece di sollevare questi vespai polemici da cui alla fine esce sempre e comunque vincitore”.
Franco invece, parlando proprio di lui, ha detto: “quella battuta non era razzista, era davvero una battuta; politicamente scorretta, certo, ma senza alcun retropensiero: l’uomo è semplicemente ignorante e insensibile, e quindi non si rende conto. La cosa veramente grave è che in un momento storico, di quelli che tutti noi ricorderemo per tutta la vita e che ha sollevato passioni, emozioni e ha dato a tutti la percezione netta di stare dentro la Storia con la “S” maiuscola, questo non ha trovato niente di meglio da dire. Poteva dire cose banali come limitarsi a constatare che finalmente sono stati superati i pregiudizi razziali, poteva commentare la grande prova di democrazia testimoniata dall’affluenza al voto, che è stata enorme per gli USA; poteva dire tutto questo e molto di più, e invece ha raccontato una barzelletta pecoreccia da bar sport. Il che dà la misura dell’uomo e, purtroppo, del popolo che lo ha eletto”.
Come commentava - se non ricordo male - Michele Serra: loro fanno la storia, noi facciamo il folklore.

venerdì 7 novembre 2008

Tristi figuri

L’altra sera, tornando a casa a piedi dal lavoro, mi sono imbattuto nella manifestazione pro-Obama del PD, a piazza del Pantheon. La tristezza era infinita, con Veltroni (mamma mia, quanto assomiglia al Ciccio di Nonna Papera, visto da vicino) che arringava da un palchetto quattro militanti spelacchiati e quasi silenziosi, ringraziandoli di essere “accorsi numerosi” nonostante la convocazione repentina, via sms. Dietro stavano schierati, rigorosamente in doppiopetto grigio con giubbottino impermeabile nero, D’Alema (Topesio, volendo trovare anche a lui un alter ego disneyano), un ciccione che mi è sembrato Fioroni, quello che resta della Melandri, rinsecchita e incartapecorita comìè, e vari altri figuri mosci.
Data l’atmosfera, e visto che era notte e stava pure per piovere, uno poteva pensare a una celebrazione funebre. E invece Ciccio, indefesso, narrava entusiasta tutta un’altra piazza, caciarona e festante, affollata ed energica; mi sa che aveva davanti al leggìo un microschermo che dava in diretta la festa di Chicago, è l’unica spiegazione razionale, in alternativa alle allucinazioni. Dico: negare la realtà non è bello, ma almeno finché uno racconta le cose in televisione può sperare che chi ascolta ci creda; farlo con chi c’è, mentre c’è, è davvero roba da manicomio, ma quello vero, pre-Basaglia.
Le immagini della festa di Chicago, del discorso da brividi di Obama, della folla ipnotizzata che lo acclamava erano davvero tanto, tanto lontane dalla tristezza di questa combriccola intorpidita. Fossi stato un giornalista, un commentatore, insomma uno qualsiasi titolato a salire su quel palco, mi sarebbe piaciuto porre a quei signori qualche domanda. Ma non potevo, ovviamente, per cui le riassumo tutte qui. Intanto, mi piacerebbe chiedere a Ciccio cosa gli fa pensare che noi tutti si sia così citrulli da berci le parole di Obama pronunciate da lui: non è che sia indifferente, almeno per me, la storia personale di chi parla, i suoi precedenti, chi è stato e chi è; certe cose, dette da Obama, mi danno i brividi e mi esaltano; dette da lui o da Topesio o da qualsiasi altro politicante nostrano diventano solo slogan e mi deprimono. Oltre tutto è cattivo marketing, perché i claim andrebbero cuciti sul prodotto, e questo nostrano è un prodotto che di obamiano non ha proprio niente. La seconda domanda che mi viene è perché lor signori non pongono fine alla lunga teoria di danni che hanno prodotto facendosi da parte, o almeno accettando che qualcuno possa sfidarli e magari scalzarli, come Obama ha potuto fare con la Clinton; ma qui da noi le primarie le fanno solo dopo aver scelto il vincitore, e quando hanno provato a farle davvero, come alle ultime regionali in Puglia, ne sono usciti terrorizzati: il prescelto non solo non era quello indicato dall’apparato, ma si è pure permesso di vincere le elezioni. Imperdonabile.
Un’altra domanda mi verrebbe da porla, invece, a tutti quei commentatori destrorsi e terzisti – Riotta e Mieli in testa – che dal momento stesso in cui il vincitore è stato annunciato hanno cominciato a farsi in quattro per per esibire su ogni frequenza la loro smagata attitudine di uomini di mondo, di iniziati ai segreti che si celano dietro le quinte e tutto appiattiscono, tutto ingrigiscono nell’ingranaggio spietato della realpolitik: guardate, popolo di sempliciotti, che è marketing, è immagine, noi lo sappiamo; un presidente americano è un presidente americano, farà gli interessi degli Stati Uniti, farà pure un’altra guerra se gli servirà, voi lo idolatrate, ma noi non ci caschiamo.
Anzi, a questi non è una domanda che vorrei rivolgere, ma piuttosto una richiesta: lasciateci in pace. Non è che fuori dalle vostre redazioni tutti sono così coglioni da non capire che è impossibile che questo presidente possa realizzare le aspettative stratosferiche che ha suscitato; non è che tutti sono così candidi da non immaginare che per lui l’interesse del suo paese verrà prima di qualsiasi altra preoccupazione. Non preoccupatevi, ci arriviamo da soli a capire queste faccende. Quello che non capisco – io – è come fate – voi – a non rendervi conto che la speranza di tutti quelli che hanno festeggiato in tutto il mondo non è che questo signore rinunci a tutelare il suo paese, ma che lo faccia in un modo diverso da quanto hanno fatto i suoi ultimi predecessori; chi l’ha detto che istituire negli USA un servizio sanitario pubblico degno di questo nome, chiudere Guantanamo, ritirare le truppe dal pantano iracheno, promuovere l’industria delle energie rinnovabili siano azioni che ledono gli interessi degli Stati Uniti? Chi l’ha detto che in questo modo non si possano tutelare non di meno, ma di più – e meglio – gli interessi di quel paese? O dobbiamo concludere che quegli interessi siano stati ben tutelati da chi ha fatto due guerre e ha fatto schizzare il debito dello stato per pagarle, riversando fiumi di soldi nelle tasche delle multinazionali degli armamenti e del petrolio? Da chi ha portato allo sfascio il sistema delle regole della finanza e il mondo sull'orlo di una recessione globale? Io questo mi aspetto da Obama: che faccia davvero gli interessi del suo paese, perché questi interessi - quelli veri - sono anche i nostri, e possono essere quelli di tutti. Può rivelarsi una delusione, dite? Certo che sì. Ma perché devo pensare già adesso che probabilmente lo sarà? A me pare che le premesse perché faccia bene ci siano tutte. Certo, lo aspettiamo alla prova dei fatti. Ma per favore, fate lo stesso anche voi. Della vostra triste supponenza non sappiamo davvero che farcene; nè di quella, né della retorica triste di Ciccio.

mercoledì 5 novembre 2008

Io e Obama, ovvero...

Il presidente Gattopuzzo!

Da Wikipedia, alla voce Barack Hussein Obama:

“[…] Dopo il liceo, Obama studiò per un paio d'anni all'Occidental College, prima di spostarsi al Columbia College della Columbia University. Là si laureò in scienze politiche, con una specializzazione in relazioni internazionali.[14][15] Dopo la laurea, lavorò per un anno alla Business International Corporation (ora parte del The Economist Group), una ditta che forniva notizie economiche di carattere internazionale alle aziende clienti[…]”.

Capito? Sappiate, o popolo di miscredenti, che anche il GPZ ha lavorato in Business International: Il GPZ e Obama erano colleghi! E così ho anch'io titolo per partecipare allo sport nazionale nato ieri sera, lo scrocco del passaggio sul carro del vincitore Obama. Certo, lui lavorava nella sede americana e io in quella italiana, lui negli anni ottanta e io nei novanta, ma cosa volete che siano lo spazio e il tempo a fronte dell’immensità di un sogno? E’ l’ora, è l’ora! Se tanto mi dà tanto, lui è diventato presidente più di venti anni dopo aver lavorato lì, e io me ne sono andato solo dieci anni fa: fate i vostri conti, fra dieci anni o poco più (diciamo duemilaventi, così fa cifra tonda) avrete il GATTOPUZZO PRESIDENTE!!!
E ora scusate, scappo che devo andare a preparare i gadget per la mia campagna, Obama insegna: meglio muoversi per tempo.
E soprattutto, mi vado a prendere una solenne sbronza a base di champagne con la mia cucciolotta, alla faccia dei Teocon, Neocon, Viasat, Viacal, Battisti, Mormoni, Neocatecumenali, Focolarini, Fanatici con la F maiuscola e soprattutto alla faccia di quella manica di stronzi che ieri sera pur di avvolgersi nell’alone del successo (e scrollarsi di dosso la puzza della sconfitta) impazzavano da Vespa con i loro “Obama assomiglia a noi”. Ah La Russa, ma ce l’hai gli specchi a casa? Passi per il Berlusca, che se pure ce l’ha non ch’arriva proprio, a specchiarsi, ma tu, brutto come sei e però cieco sicuramente no, che scuse accampi?
Per oggi fine delle trasmissioni, ci si sente domani!
Il vostro affezionatissimo

GPZ (The President!)

lunedì 3 novembre 2008

mercoledì 29 ottobre 2008

I numeri che non abbiamo

Oggi, senza andare troppo sul filosofico, parliamo di numeri.
L’ignoranza – spesso rivendicata con orgoglio - di noi italiani in questa materia è un fenomeno antico, in cui hanno parecchie responsabilità Croce e Gentile.
Restando su un piano più terra terra, prendiamo la manifestazione del PD a Roma, sabato scorso: erano due milioni, duecentomila o diecimila? In fondo non dovrebbe essere difficile contarli: si prende qualche foto da Google earth, si scelgono un po’ di riquadri campione, si contano le capocce in quei riquadri e si moltiplica la media delle capocce per il numero di riquadri. In realtà è leggermente più complicato, ma vi assicuro che uno statistico come il GPZ vi saprebbe fare il calcolo aggiungendo, ovviamente, anche il margine di errore.
Invece qui ci piace parlare di milioni, a prescindere: erano milioni (sempre autocertificati, ovviamente) quelli scesi in piazza per il nano alfa due anni fa, e quindi non possono non essere milioni questi qui, pena l’etichetta di fiasco. Io propendo per le centinaia di migliaia, ma non ditelo a Veltroni.
In questo nostro stranissimo paese, poi, ci piace tanto erigere ardite costruzioni intellettuali senza un minimo di riscontro con la realtà, e quindi – ancora! – con i numeri. Si preferisce ragionare sui principi, come se questi dovessero essere necessariamente in contraddizione con la dimensione dei fenomeni; e se qualcuno prova a riportare l’intellettuale di turno sui binari della realtà, quello come minimo gli dà del “ragioniere”, sottintendendo meschinità e ristrettezza di vedute. Magari ne avessimo avuti, di ragionieri oculati, al posto dei condottieri di (s)ventura che ci siamo sempre ritrovati...
Si è fatta una guerra di religione durata due o tre anni sul famoso “scalone” della riforma pensionistica di Maroni, che riguardava lo zero virgola spiccioli dei pensionandi italiani; il nano beta Brunetta spara ogni giorno le cifre più fantasiose sul calo dell’assenteismo nel pubblico impiego senza che nessuno gli chieda dove li ha presi quei numeri, chi li certifica; e sull’entità di questo fenomeno, che a leggere le statistiche – quelle vere - è di poco superiore a quello del settore privato, ha costruito una fortuna politica. Basata peraltro sul rancore che molti italiani provano verso molti altri, invece che su argomenti razionali.
Il polverone sollevato da queste e altre battaglie insensate ha oscurato temi ben più pesanti che interessavano tutti. Qualche esempio? Il rinnovo del famigerato CIP6, che è il provvedimento con il quale noi cittadini (tutti) finanziamo con le nostre tasse inceneritori di rifiuti e raffinerie di petrolio quali produttori di “energie rinnovabili”; il finanziamento di 50 milioni di euro regalato dal Berlusca I ad una sola università privata, proprio mentre si affossavano quelle statali; e tante altre cose.
Rileggo ora quello che ho scritto, e mi rendo conto che è noioso; sì, alla fine mi annoio pure io a parlare di queste cose, nonostante siano il mio mestiere: è perché sono sì un mezzo matematico, ma prima ancora sono un italiano.
Le responsabilità, si diceva prima, sono antiche: Benedetto Croce teneva in supremo spregio “gli ingegni minuti” dei matematici, e quando il matematico Federico Enriques organizzò un’iniziativa di divulgazione – si era negli anni dieci del secolo scorso, davvero in anticipo sui tempi – si beccò dal pater della cultura italiana di allora una raffica di elegantissimi insulti; Giovanni Gentile, l’altro peso massimo della filosofia italiana di quell’epoca, proseguì su questa strada, e quando il Dux gli commissionò la riforma della scuola separò nettamente il percorso scientifico da quello umanistico. Come se la cultura potesse essere scissa; in realtà, il retropensiero era lo stesso di Croce: un percorso nobile, che passa attraverso lo studio delle arti e della letteratura, e uno tecnico, di bassa cucina, destinato agli “ingegni minuti”. In queste condizioni, l’aver sfornato economisti matematici come Pareto, fisici da Nobel come quelli del gruppo di via Panisperna e matematici come Ricci Curbastro o Levi Civita, senza le cui equazioni la teoria di Einstein forse non sarebbe nata, è qualcosa che non si spiega; sono le felici eccezioni di cui il nostro paese è sempre stato capace e di cui poi ci vantiamo pure, dopo averne tenacemente ostacolato la crescita. E sono sicuro che la maggior parte degli italiani non conosce quasi nessuno dei nomi che ho appena citato.
Io però credo che la cultura e le capacità di un paese si misurino sulla media, non sulle punte di eccellenza: a che serve avere un pugno di scienziati, se tutti gli altri sono semianalfabeti e a quei pochi scienziati guardano pure storto, perché non capiscono la loro opera e credono che stiano semplicemente sprecando risorse?
Questo disconoscimento della cultura quantitativa, dei numeri, secondo me spiega un sacco di cose; la proverbiale disorganizzazione italiana, per esempio: come si fa a programmare se – a priori – si ha orrore per le tabelle numeriche che riassumono i fenomeni che si devono dominare? Che siano le liste d’attesa degli ospedali o la frequenza delle corse dei mezzi pubblici. Se i nostri manager sono delle pippe lo dobbiamo anche a questo, non solo al familismo amorale che li ha collocati in posti di comando anziché a spazzare le strade.
E - altro danno enorme - quei pochi che, in questo paese, amano davvero la cultura, spesso non sanno neppure di perdersi metà del piacere: identificano la cultura con la letteratura, con le arti, con la filosofia quando va bene, e si fermano davanti alle scienze matematiche come cavalli recalcitranti davanti a un ostacolo; così non sapranno mai che l’eleganza di una dimostrazione matematica è la stessa di una scultura classica, che la febbre creativa che traspare dall’opera di un fisico teorico non ha niente di diverso dal genio malato di un van Gogh. E qui mi fermo, sennò la facciamo troppo lunga. Io non sono filoamericano, anzi, e la cultura anglosassone, presa in blocco, mi ispira un rapporto di amore permeato di diffidenza; però, credetemi, loro hanno davvero un’idea completa di che cosa sia la cultura, e noi no. E si vede, purtroppo; si vede molto.

domenica 26 ottobre 2008

Napoli salta la corda

Qualche giorno fa Nadia si è sposata, e ora sta partendo per il Brasile. Non sa cosa farà, laggiù, ma Nadia vive così: non si prepara la strada in anticipo, va e scopre sul posto cosa può offrirle il luogo, e che cosa al luogo può dare lei.
Nadia ve la faccio conoscere attraverso le parole di Sara, che con questo testo ha vinto l'anno scorso il premio Napoli (http://www.premionapoli.it). Nadia è mia cugina, Sara una delle mie amiche più care.

Napoli salta la corda


Sara Ventroni racconta il proprio rapporto con città


Le prime sere accendeva la torcia elettrica per controllare che non ci fossero topi lungo le scale del condominio. Ma questo accadeva anche a Roma, nelle case a pianoterra col cortile interno a ballatoio. Per il resto, si trovava bene. Il balcone della sua camera dava su vicolo Maiorani, tra via dei Tribunali e San Biagio dei Librai, e lì metteva al sicuro il motorino, in una cantina improvvisata a garage. Qualche metro più su, un’icona illuminata ipnotizzava i passanti come le vecchie insegne a spirali dei barbieri: la Madonna Blu di Spaccanapoli ti fissava dalla teca con l’aria trasognata di una Monnalisa elettrica. Il suo alone enigmatico e fluorescente non aveva nulla da invidiare alle installazione al neon di Mario Merz.
Di edicole votate alla Madonna era piena anche Roma, ma quelle napoletane erano più eccentriche e tutto sommato anche più operative. Come quella d’ ‘e rrose, a vicolo San Liborio, che Filumena Marturano aveva preso di petto per sapere se doveva tenere il figlio oppure no. Alla domanda incalzante di Filumena, la Madonna se ne stava zitta, non dava consiglio, non si scomponeva. Poi aveva trovato modo di risponderle attraverso la sicumera di una voce, quella del popolo, che scandisce l’oracolo dalle persiane accostate. Ma a Filumena era bastato per capire quello che c’era da fare.
Nadia non aveva niente da chiedere, forse perché un fatto miracoloso era già accaduto: da Roma si era mossa verso Napoli e aveva trovato un lavoro.

Bisogna entrare in una nuova città col piede giusto, come a salta-la-corda: prendere il ritmo al balzo ed evitare una frustata in testa. La prima regola del gioco ha sempre a che fare con la lingua. E Nadia da subito aveva permesso alla modulazione del dialetto di annidarsi nella sua calata, ma senza quel retrogusto blasé di chi s’impossessa delle cose che non gli riguardano.
Lavorava in una casa-famiglia dalle parti del Centro Direzionale, coi picchiatelli, come li chiamava lei, uomini e donne sottoposti al TSO eppoi internati per un attacco di panico, una sensibilità fuori dal comune, un’omosessualità latente o per un male di vivere che sdoppia il cervello, lo sfilaccia in mille voci fino all’esplosione di quel centro unificante chiamato Io. Nadia lavorava con queste creature di generazione pre-Basaglia, un tempo rese inoffensive dai ripetuti elettrochoc eppoi placidamente governate dalla chimica dei giusti dosaggi di farmaci. Anche Michele Murri, ex rappresentante di gioielli, era diventato un picchiatello con il pallino del discorso-che-fila e l’ossessione per l’accuratezza linguistica. Bisognava dirgli sempre di sì. Ma a essere onesti anche Teresina, la sorella sana di Michele, mostrava qualche segno di nevrosi, con quelle manine rigide e le mosse meccaniche da burattino di latta.

L’andavo a trovare e mi fermavo per una sera, un fine settimana, un capodanno; qualsiasi motivo era buono per scendere a Napoli. Spesso Nadia veniva a prendermi alla stazione col motorino, altre volte andavamo a piedi, volutamente a casaccio tra un vicolo e l’altro. Anch’io iniziavo a orientarmi per i quartieri, tenendo sempre a mente la posizione del Golfo, anche quando scompariva dietro gli alberghi di lusso del lungomare.

Napoli, prima di frequentarla, per me non era un luogo comune. Non era maschere e malavita. Camorra e Pulcinella. Non era nemmeno Giambattista Vico, la Federico II, l’erre rotante da nobiltà decaduta o una terrazza con vista.
Napoli, prima di conoscerla, aveva il viso scavato di Eduardo De Filippo.
Non abbiamo origini napoletane e quindi non so ancora spiegarmelo. È un fatto, però, che nella mia famiglia Eduardo ha svolto la funzione di una bibbia profana, con le battute al posto delle parabole. Altre volte era un campionario di espressioni da cui pescare per fare il verso a un atteggiamento bizzarro, per imitare uno sguardo, per dire una cosa molto seria; altre volte ancora era una scusa per stare insieme una serata, anche se sapevamo a memoria tutte le commedie e per sfinimento il vhs s’inceppava. Eravamo e siamo ancora bambini che vogliono ascoltare le stesse storie per ridere e piangere nei soliti passaggi, o per mettere in risalto piccoli dettagli che erano sfuggiti.
Altre volte invece anticipavamo una frase, un gesto, una scena intera per dimostrare che Eduardo ormai era di tutti e di nessuno, e come ogni grande classico non apparteneva più solo a sé stesso. Non è il caso di spiegare cosa ha significato Eduardo per Napoli e viceversa; è certo però che quanto più dava voce alla sua città, alla sua lingua, al suo tempo, tanto più diventava universale.
C’è chi sceglie il prete e chi il medico. Per noi Eduardo è stato un punto di riferimento, una specie di maestro laico. Uno di famiglia.

Anch’io c’ero entrata col piede giusto e mi sentivo di casa, forse perché non avevo mai avuto frenesia di vedere Napoli, piuttosto mi ci ero mossa dentro, animata da quella lenteur che segna il passo quando hai la certezza che un luogo non ti sfugge.
La spesa a Forcella, una pizza da Di Matteo o da Bombolo, una passeggiata soprappensiero a Mergellina, i fuochi a mare, la macchina incagliata in retro su una scalinata ai Quartieri, il fiato sospeso davanti al Cristo Velato, il pesce all’alba ai mercati generali, un divano su cui papariare di primo pomeriggio, un caffè all’aperto dalle parti di piazza San Domenico.
Nadia non era certo una sprovveduta, e anche se sotto Natale andava a vedere i presepi e le luminarie tra i banchi di San Gregorio, non si lasciava sempre incantare dall’atmosfera rumorosamente colorata che Napoli, quando vuole, ti butta davanti agli occhi tanto per rassicurarti. Dalla finestra della sua cucina (aveva subito preso l’abitudine di calare il cestino con la corda), una volta m’aveva indicato i traffichini del quartiere, compreso il pezzo forte, un uomo che se ne stava seduto tutto il giorno su una sedia di paglia in mezzo alla piazzetta a controllare chi andava, chi veniva e chi, con ossequioso rispetto, si fermava a salutarlo.

Quando uno se ne va poi si chiede cosa resta, in quale parte del corpo una città è diventata per sempre nostra.
Ci sentiamo al telefono, ci scriviamo. Spesso, telepaticamente, siamo contente quando le cose vanno bene per entrambe. Ci conosciamo da sempre, d’altra parte.
Sono stata a trovarla a Madrid, dove è andata a vivere dopo tre anni di Napoli e uno di Siena. A quanto pare, ora si sta organizzando per il Brasile. Ma un conto è viaggiare, un conto è ricominciare daccapo ogni volta, senza un lavoro, in una città diversa, dentro una lingua straniera che magari ignora quell’ “italiano emotivo” - la parlata della gioia e della rabbia - fondamentale per dare carattere alla semplice comunicazione.
Nadia non sa spiegarselo bene: ancora adesso, quando è felice, la sua voce cambia sensibilmente registro per seguire l’invisibile sali-e-scendi dell’italiano modulato sulla vecchia frequenza del napoletano.

venerdì 24 ottobre 2008

A fari spenti

Vagabondando in rete mi sono imbattuto in un grosso pdf, tra i download di Repubblica.it, che raccoglieva un migliaio di scritti dei lettori sul tema "la meglio gioventù". Era di cinque anni fa (mamma mia, che paura! Avrei giurato che il film fosse più recente), e mi sono ricordato di aver partecipato anch'io. La promessa era che i migliori scritti sarebbero stati, appunto, pubblicati in pdf, ma a giudicare dalla mole del file è più verosimile che li abbiano pubblicati tutti. Ho cercato il mio, che tutto sommato mi piace ancora. Lo propongo qui. Se poi qualcuno avesse voglia di raccontare la sua, di meglio gioventù, lo ospiterò volentieri.

FARI SPENTI
Non era più tempo di contestazione, quella vera. Però la Pantera, nel '91, fu un'illusione, una rapida fiammata da braci ormai quasi spente. Avevamo 26 anni, andammo al nostro primo blocco ferroviario, io e Sandro. Fu anche l'ultimo della nostra vita: indossammo presto la cravatta, dopo quell'episodio. Ma ci credemmo, per qualche ora. Su un pendolino qualcuno aveva scritto: «non salire, merdoso padrone», e oggi che ci salgo spesso (ci salgono tutti) ogni volta mi trovo a pensare quanto sia strano che solo 12 anni fa qualcuno potesse considerare quel treno “un treno da padroni». Arrivò la celere - me ne ero già andato, Sandro era ancora lì. Non so perché tornai indietro: mi tremavano le ginocchia, nel passare il cerchio dei manganelli, gli sguardi che allora mi assalirono feroci - e oggi nel ricordo rivedo patetici - di quei poveracci in tenuta antisommossa. Però tornai, e rimasi con Sandro ad aspettare la carica che non arrivò. Non arrivò mai niente, per la nostra generazione: transizione tra furore e grigiore, piccoli fuochi subito spenti, e a fari spenti siamo arrivati fin qui, senza aver lasciato segni, se non dentro noi stessi. Ma lo stupore di Sandro nel vedermi tornare, e l'abbraccio: un attimo che da solo vale il fuoco che non divampò.

mercoledì 22 ottobre 2008

R.P.

Nel 2001 mi rubarono il portafoglio in ufficio. E chissenefrega, potreste dire voi. Le conseguenze di questo fatto, però, sono davvero notevoli e anche esilaranti, per cui ve le racconto.
Intanto fu già comico il modo in cui il ladro – sono quasi sicuro che fosse un uomo - usò la carta di credito: spese quasi un milione (c’erano ancora le lire) in un salone di bellezza, in meno di due ore; e quanto mai sarà stata brutta, la sua bella… Si comprò anche uno stereo, e poi esaurì quello che restava del plafond in buoni benzina.
Io feci la denuncia, riebbi quasi tutti i soldi dall’assicurazione, mi rifeci i documenti e pensai di poterci mettere una pietra sopra… E invece era solo l’inizio dell’incubo.
Dopo pochi mesi, mi arriva una convocazione dai carabinieri: vado e mi contestano una truffa a una concessionaria che aveva fruttato al truffatore una Porche da duecento milioni. Un tizio con i miei documenti, infatti, aveva trovato il modo di farsela consegnare dietro un anticipo ridicolo, e poi era sparito. Mi ci volle una mezza mattinata per convincerli che il tizio non ero io, nonostante la regolare denuncia di furto che avevo fatto all’epoca e la misera Peugeot 106 carta da zucchero parcheggiata appena fuori la caserma.
Da quel giorno, la capatina dai carabinieri divenne un’abitudine, tipo quelle gite culturali che uno si concede una volta ogni due o tre mesi; e siccome li pagano per essere sospettosi, i carabinieri, quelli interpretavano ogni volta al meglio il loro ruolo di probi tutori dell’ordine e mi torchiavano per un paio d’ore. Tra l’altro non erano mai gli stessi, per cui mi sono anche fatto una bella cultura sugli arredi interni delle caserme di mezza Roma e parte della provincia.
Finalmente, dopo un quattro anni dal fatto, arriva una convocazione che solo in apparenza era come tutte le altre: mi presento alla caserma di Tor di Quinto, mi fanno accomodare in sala d’attesa e… non succede più niente.
Io ho fretta di tornare al lavoro, comincio a sbuffare, passeggio nervoso, do chiarissimi segni di insofferenza, ma niente. Insieme a me attende una coppia di persone di una certa età, sono un po’ più pazienti di me, ma insomma, anche loro alla fine si innervosiscono. Chiamiamo il piantone – a vederlo pareva che avesse dodici anni -, facciamo una mezza scenata, quello si mortifica e diventa piccolo piccolo, farfuglia che il maresciallo è stato bloccato da un imprevisto, un’ispezione improvvisa, diventa tutto rosso, ci inteneriamo e lo lasciamo stare, ormai rassegnati al nostro destino. Ci rimettiamo seduti, siamo lì da quasi due ore, che fare?
Chiacchieriamo, io racconto la mia disavventura e loro fanno lo stesso; sono anche loro vittime di una truffa, hanno una pellicceria e si sono fatti abbagliare da un signore rispettabilissimo all’apparenza, molto elegante, accompagnato da una bambina – ispirano sempre fiducia -, che si è portato via venti milioni di pellicce pagando con assegni che quando la signora è andata in banca a versarli è stata trattata come se fosse lei, la ladra, e il cassiere ha pure chiamato i carabinieri. Adesso sono qui per chiarire questa storia e raccontare la loro versione dei fatti; il conto l’hanno chiuso, erano clienti da anni ed essere trattati in quel modo, insomma…non gli è garbato molto.
E chiacchieriamo per un’altra ora e mezza, alla fine ci rilassiamo, quasi ci scordiamo pure perché siamo lì, sospesi in quel limbo – una stanza squallidissima arredata con due panche di legno e un tavolo decrepito – in attesa che qualcosa succeda…
E infine la nostra attesa è premiata: appare il maresciallo, che si scusa, arrossisce pure lui, è costernato, eccetera eccetera; convoca prima la coppia, e restando da solo ho il tempo di pensare, e finalmente capisco: questi immensi bischeri hanno voluto fare un confronto all’amatriciana tra truffati e presunto truffatore, perché evidentemente non se l’erano mai levato dalla testa il sospetto che in realtà fossi stato io ad architettare tutto, compreso un falso furto di documenti. Quasi quattro ore mi hanno lasciato a bagnomaria con quei due poveracci, perché evidentemente una mezz’oretta non gli bastava. Quando vedo la coppia allontanarsi entro furente dal maresciallo, ma figuratevi se quello era disposto ad ammettere la furbata: è stato un caso, sì certo che il truffatore era lo stesso, ma io non dovevo assolutamente pensare a quello a cui avevo pensato, e poi in fondo mi doveva dare una buona notizia, l’avevano appena arrestato; non aveva confessato, ma le prove erano tali da poterlo inchiodare; tra le prove essendo compresa, suppongo, la pagliacciata di quella mattina, con me protagonista. Rapida consultazione telefonica con l’amico avvocato – Ma che voi denuncià, ma che sei scemo? Quello nun c’ha ‘na lira, co’ che te paga? Va affinì che paghi tu a me, e a te nun te paga nessuno.
Vabbè, OK, dico, lasciamo stare la cosa così. Non lo denuncio, basta che quest’incubo finisca qui.
Ma è un pia illusione: a febbraio di quest’anno (2008, sono passati sette anni dal furto) mi arriva una convocazione in tribunale, quale teste a carico di tale R.P.; presentarsi il giorno X, all’ora Y, a piazzale Clodio. Punto.
Ohibò, ma chi è R.P.? E io che ne so delle sue eventuali malefatte? Provo a informarmi, ma è assolutamente impossibile: nella convocazione non c’è un numero di telefono, un ufficio informazioni, niente. Non resta che andare al buio, e così faccio.
All’ingresso della palazzina, dove accedo dopo fila, raggi X e perquisizione, c’è un gabbiotto con su scritto “Ufficio informazioni” e poi, sotto, un cartello: “Chiuso per guasto tecnico”. Si sarà rotta la sedia? Comunque capisco l’antifona, rinuncio alle informazioni e vado direttamente in aula. Sul mio documento c’era scritto di presentarsi alle 11, e infatti a quell’ora arriviamo, puntuali e tutti insieme, una mandria di testimoni. E che avrà fatto mai, R.P.?
Ma è solo che loro i testi li convocano all’ingrosso, poi decidono lì per lì da quale processo cominciare, e il mio naturalmente è l’ultimo. In tribunale non c’ero andato mai, devo dire che quella mattina mi sono fatto una autentica cultura di penale. L’unica cosa che non capivo era perché non si pronunciasse una sentenza che era una, ma solo rinvii. Una volta mancava un teste chiave che era in ospedale, un’altra volta c’era un vizio di forma, e poi invasioni di cavallette, inondazioni del Tevere, atterraggi di UFO, qualsiasi cosa fosse idonea a impedire il pronunciamento.
Quando è toccato a me, il rinvio è arrivato ancora prima di cominciare: il cancelliere si è alzato e ha annunciato che R. P. (ma chi sarà mai costui?) non c’era – giustamente, ci ha tenuto a dire – perché lui aveva eletto domicilio presso l’avvocato Leguleio Azzeccagarbugli, ma aveva scelto come difensore l’avvocato Codicillo Azzeccagarbugli, e proprio all’indirizzo di quest’utimo era stata inviata la convocazione, non al domicilio eletto, per cui R.P. era assente (giustificato) per colpa del cancelliere (che era lui che stava parlando). E non potevasi procedere.
Sfatto e scoraggiato mi avvio all’uscio, inseguito però dal pubblico ministero che mi riconvoca a voce per il 17 ottobre, cinque mesi dopo. Ma non mi dice chi sia R.P., né cosa abbia fatto. Uscendo, però, vedo un tizio che mi pare di conoscere; lo avvicino, gli chiedo se pure lui si trovasse lì per R.P. e quello mi dice sì, è lui che l’ha arrestato. Allora guardo meglio e lo vedo, sì, è proprio il maresciallo di Tor di Quinto, così adesso finalmente so chi è R.P., e soprattutto cosa ci si aspetta che io dica.
Premesso che in tutto questo tempo più nessuna convocazione – nemmeno un memo – mi è giunta, il 17 ottobre mi sono ricordato per miracolo che dovevo tornare in tribunale. Solita trafila: perquisizione, raggi X, gabbiotto delle informazioni ancora “Chiuso per guasto tecnico” – e quanto ci vorrà mai ad aggiustare una sedia! – e nessuno che mi sappia dire dove devo andare. Per fortuna mi ricordo dove sono andato l’altra volta, e per puro culo l’aula del processo è ancora quella. Ma non si farà il processo, dice il cancelliere, perché è sciopero, appunto, dei cancellieri. – E allora lei che ci fa qui? – Ma per dire ai testi e al pubblico ministero (una vera bellezza, almeno questo lo devo dire) che sono in sciopero, non è chiaro? A me tanto chiaro non è, però lui pare convinto, e tocca abbozzare. Me ne vado, ancora più sconsolato della volta precedente. Non so nemmeno quando dovrò tornare, perché se lo voglio sapere devo aspettare almeno un’altra ora che scenda il giudice. Per le scale mi si affianca una fata. Non è il PM, è ancora più bella, si presenta come il nuovo avvocato di R.P., non capisco cosa voglia, facciamo qualche rampa di scale insieme, mi parla come se fossi un teste a discarico, invece del principale teste dell’accusa. Mah. Mi saluta, se ne va sculettante nel suo tailleur. E io resto lì con una domanda, una sola, che non ho il coraggio di pregarla di porre per me al suo assistito, a R.P.: ma quei quattro milioni che m’hai fregato non me li potevi chiedere, che io te ne davo pure il doppio e la Porche te la compravo io, pur di evitare questa persecuzione?
Naturalmente, alla fermata dell’autobus scopro che è sciopero pure dei mezzi pubblici. Taxi manco a parlarne, il lavoro aspetta e impelle. Da piazzale Clodio a Via Nazionale saranno buoni quattro chilometri. Indovinate un po’ come se li è fatti il vostro GPZ? R.P., R.P…. se solo potessi averti tra le mani...