domenica 28 dicembre 2008

Una serata in Italia

Traffico scorrevole. Porta Pia: tempo stimato 9 minuti”. Così recitava il cartello al neon appeso nella nebbia della piovosa serata di ieri davanti all’Ara Pacis, a Roma, dove la mia macchina aveva pensato bene di esalare l’ultimo respiro. Un serpentone ansimante gemiti metallici si contorceva a nemmeno un metro da me, eppure le lettere gialle risplendenti nella foschia assicuravano che la bestia avrebbe senz’altro spostato il suo ventre a Porta Pia entro nove minuti.
Del resto, una suadente voce femminile mi aveva rassicurato altrettanto fermamente che il soccorso stradale sarebbe giunto “entro quaranta minuti”, ed era appena passata un’ora dalla telefonata.
Aspettiamo. Fa freddo in macchina, mia moglie batte i denti, passano i vigili e ci intimano di smammare, e io lo farei tanto volentieri, se solo potessi.
Intanto il cartello cambia, ora dice “Traffico scorrevole. Porta Pia: tempo stimato 6 minuti”, e forse a monte di dove siamo le condizioni saranno migliorate, ma a vederla così io direi che non ci vuole meno di mezz’ora anche solo per arrivare a imboccare il sottopasso, cento metri più in là. Subentra l’apatia, ce ne stiamo in silenzio a guardare i fari delle macchine che ci si fermano accanto, prigioniere della morsa di metallo, e ovviamente a guardare i retrovisori, nella speranza di avvistare il carro attrezzi. Niente. Mi ritrovo a pensare a un vecchio racconto di fantascienza di Ray Bradbury, in cui una pattuglia di terrestri vaga senza posa su un pianeta battuto da una pioggia perenne che rende il paesaggio sempre lo stesso e sempre grigio; noi siamo al riparo, ma per il resto non ci trovo molta differenza: fari che ci passano accanto, pioggia, cielo plumbeo, buio. Unico elemento cangiante del paesaggio, il cartello luminoso: “Traffico scorrevole. Porta Pia: tempo stimato 7 minuti”. Mi chiedo quale sia l’algoritmo capace di elaborare previsioni così precise laddove io vedo solo un’immutabile marmellata di metallo colorato. Mi ricordo di un algoritmo altrettanto mirabile, quello che sul sito del comune mostrava un bel sole splendente il giorno della piena del Tevere: che sia la stessa società a curare le previsioni del traffico?
Guardo l’orologio: le sei e tre quarti, è passata un’ora e mezza da quando la signorina dell’ACI mi ha assicurato che in quaranta minuti mi avrebbero rimorchiato. Chi sa poi per dove, visto che la gentilissima pulzella non è stata in grado di dirmi né se i soccorritori sarebbero stati in grado di recapitarmi una batteria nuova (il problema è quello lì, ne sono certo), né dove si trovasse l’officina convenzionata più vicina. E in un’ora e mezza niente di niente: né il mezzo di soccorso, né un avviso di ritardo. Il vuoto assoluto. Richiamo, mi risponde Beethoven. L’inno alla gioia, però, mi pare decisamente una presa per il culo. Non me ne vorrà il geniale crucco per gli sfanculamenti con cui ho salutato la sua opera, spero, ma comincio a essere veramente stufo. Alla fine si fa viva una certa Tea, che mi chiede se sono certo di aver chiesto soccorso all’ACI. La salva da una morsicatura via etere il provvidenziale esaurimento della batteria del mio cellulare (pure quella! Ma che gli ho fatto io di male ad Alessandro Volta?). Richiamo, altri dieci minuti in compagnia di Ludwig, poi prende l’iniziativa Luana (ma come funziona, non le prendono se non hanno un nome da Pornostar?). E’ spiacente Luana, ma c’è grande richiesta, pare che sia rimasta appiedata mezza Italia, non è proprio in grado di dirmi dove sia il mio mezzo di soccorso, anzi non sa nemmeno se è partito… C’è bisogno di altri commenti? Ruggisco, sfanculo, le dico che è meglio se non si presentano, sennò gli metto le mani addosso. Attacco il telefono, risolvo all’italiana, e cioè con gli amici: conosco un garagista, quello è gentile e mi dice di andare da lui, mi presterà un ordigno che pesa venti chili e che mi dovrò portare in collo fino alla macchina (taxi a Roma, in centro, sotto le feste di Natale quando piove, ovviamente manco a parlarne). L’ordigno genererà la scintilla che farà ripartire la mia povera vecchia Fiat Marea, poi penserà l'amico garagista a ricaricarmi la batteria, nottetempo, nel suo garage.
Ho fatto tutto questo, alla fine saranno state le otto quando finalmente ho tolto la macchina dalla scomodissima posizione in cui era, e guardando le facce nelle macchine che si muovevano a passo d’uomo accanto a me mi è sembrato che fossero le stesse di mezz’ora prima, quando mi ero allontanato a piedi per andare a prelevare l’ordigno salvifico. Eppure il cartello diceva: “Traffico scorrevole. Porta Pia: tempo stimato 5 minuti. Buone feste”.

lunedì 22 dicembre 2008

Sfida all'OK Corral (presso Rocco Toys)

Natale incombe e i gattopuzzi scappano da questa bolgia urbana, anche se –ahimè – troppo tardi, dovendo restare al chiodo fino al giorno stesso di Natale; poi, però, il signor Gattopuzzo e la signora Cucciola si ritirano al paesello, e tanti saluti alla turba berciante che infesta le strade e rende folli a camminarci in mezzo. Casino, luci, ressa, clacson, congestione di traffico, masse di carne semoventi…Bleah!
Questo orrore della folla ce l’ho sempre avuto, eppure una volta non esitavo a tuffarmici in mezzo; certo, c’erano motivazioni molto solide. Prendiamo per esempio Natale ’96, la vigilia. Chiudete gli occhi e immaginate il Gattopuzzo poco più che trentenne, fisico atletico, sguardo deciso, single, scatenatissimo e pure in carriera, che si fa incastrare e anziché lavorare mezza giornata si trova a dover consegnare – da solo – i materiali per un mailing alla tipografia; perché qualcuno (o meglio: Qualcuno, leggi l’amministratore delegato, che all’epoca ancora mi ispirava la maiuscola) aveva deciso che quella roba doveva partire proprio in quei giorni lì.
E però il GPZ è anche zio di una nipotina ormai metamorfosata in Alien, come tutti gli adolescenti, ma che all’epoca era un’adorabile tesorino di tre anni, che aspettava impaziente Dado (mi ci chiama ancora, la fanciulla) e soprattutto il regalo che Dado aveva di certo consegnato a Babbo Natale. Solo che Dado non aveva consegnato proprio un tubo, perché era aduso a lavorare dalle dodici alle sedici ore al giorno e non aveva avuto tempo di battere i negozi di giocattoli alla ricerca di Baby Mangiapappa Falacacca, che era il bambolotto alla moda tra le bimbette di quegli anni lì. Contava sulla vigilia , l’incosciente zio, come se fosse facile in quel giorno di delirio setacciare negozi alla ricerca di una preda fin troppo ambita da mamme, papà, zii, nonni, amici, parenti e affini fino al settimo grado.
Per farla corta: finisco di preparare il materiale alle 18, pianifico: prima il regalo all’adorata nipotina, poi la volata verso la tipografia, che tanto il tipografo ci abita sopra e la roba gliela posso portare pure a casa. Mi fiondo nel mio peugeotttino azzurro parcheggiato a via Po, parto alla volta di Rocco Toys e… resto bloccato seduta stante in un magma di metallo urlante.
Come abbia fatto non dico ad arrivare da Rocco Toys a Corso Francia, ma piuttosto a non venire arrestato o anche terminato dalla forza pubblica è per me tuttora un mistero; sta di fatto che a Corso Francia Baby Mangiapappa Falacacca non c’era, le scorte già depredate da legioni di ossessi. Monta il panico, sono le 18.30, che fare? Mi attacco al mio primo cellulare, che aveva più o meno le dimensioni di un ferro da stiro da viaggio e una riserva di batteria non superiore a cinque minuti, dopo essere caduto in una pozzanghera proprio mentre lo scartavo, appena comprato. Setaccio una decina di negozi via etere (quelli che si degnano di rispondere), ricevo un timido segnale positivo da un altro Rocco Toys; problema: sta sull’Ardeatina, che in quel casino è come dire su Saturno. Ma GPZ Cuore di Zio non demorde: mi metto al volante con cipiglio criminale, deciso a infrangere tutte le norme del codice della strada e svariati articoli di quello penale; sgommo, arroto, schivo, urto, insomma guido il povero peugeottino come fosse un motorino e miracolosamente arrivo alla meta, alle otto meno dieci, ma è ancora aperto! Schizzo fuori dalla macchina, mi sa che la lascio pure in moto, presto presto! Prima che chiudano, o peggio che qualcun altro si compri l’ultimo esemplare! Ho un vantaggio competitivo, conosco quel negozio per averlo frequentato in compagnia di un’antica fidanzata, e così mi lancio subito nel reparto giusto, vedo un rivale in tutti quelli che mi passano accanto, li guardo in cagnesco, avvisto da lontano lo scaffale, vedo pure il bambolotto e – orrore! Ce n’è rimasto per davvero solo uno, e proprio lì vicino due papà stanno assediando la commessa con la fatidica richiesta “dove posso trovare Baby Mangiapappa Falacacca”? Lei glielo indica, io non ne ho bisogno, ma loro sono in vantaggio. Perdo ogni ritegno: mi metto a correre, loro capiscono al volo e fanno altrettanto, ma io ormai ho l’abbrivio e poi modestamente sui cento metri sono sempre stato un fulmine, arrivo insieme a loro, ci guardiamo negli occhi, leggo lo sgomento nel loro sguardo e, memore di millanta sfide vinte a rubabandiera, so che quello è il momento: prima che si riscuotano agguanto la preda e schizzo via, li lascio lì con un palmo di naso, prima a inveire contro di me (ma io sono già lontano con il tesoro, e corro rapido verso la cassa), e poi a supplicare la commessa impotente che gliene trovi un altro, che lo ordini, lo teletrasporti, lo materializzi, lo crei ma faccia qualcosa, perché loro a casa dalle pargolette senza Baby Mangiapappa Falacacca no, proprio non ci possono tornare, e le mogli li scuoierebbero vivi per aver fatto tardi al lavoro trascurando i bisogni dell'angelica prole.
Trafelato passo alla cassa, pago ridendo sguaiatanente per lo sguardo attonito e quasi addolorato della cassiera, che alle otto della vigilia gli tocca pure sorbirsi uno spettacolino di questo genere, quasi quasi strillo “Adrianaaaaaaa!!!!” come Rocky Balboa (giuro che c’è mancato un niente, mi sentivo davvero come se avessi vinto i mondiali, Rocco Toys come l'OK Corral!), rimonto in macchina e via, verso la libertà! Mi mancano ancora ottanta chilometri a casa della mamma e devo pure fare tappa in tipografia, quando ci arriverò interromperò la cena della vigilia del buon Roberto, il tipografo, che mi offrirà pure di cenare con loro, mentre invece la mamma mi perseguita con chiamate sul cellulare a intervalli di cinque minuti, e tra uno smadonnamento e l’altro finalmente, alle nove e mezza, esausto varco la soglia di casa, dove tutti stanno lì incazzati ad aspettare il signorino ritardatario e schiattano dalla fame. Mi becco i rimbrotti, la mia dolcissima sorellina manifesta il proposito di evirarmi e lo farebbe se non si mettesse in mezzo quel sant’uomo del marito, ma che possono saperne loro della mia felicità? Ho vinto un mondiale, sono un campione, e loro non sanno… E mentre finalmente mi siedo e inforchetto gli spaghetti allo scoglio, il mio pensiero va cavallerescamente ai due sconfitti della competizione: chissà che vigilia gli starà toccando in questo momento, poveracci!

martedì 16 dicembre 2008

La Storia non siamo più noi

16 dicembre 2008, alcuni titoli raccolti qua e là nella rete:

Tangenti, arrestato l'ad di Total
Coinvolto anche deputato Pd

(La repubblica.it)

Leggi razziali, Fini attacca: «Anche la Chiesa si adeguò»
(Il corriere.it)

In Abruzzo vince Chiodi.
Democratici in caduta libera

(Il Sole 24 Ore.com)

Pd: sì a pensione a 65 anni per le donne se Brunetta appoggia legge su occupazione
(Il corriere.it - 15 dicembre 2008)

Pescara: arrestato il sindaco D’Alfonso (PD), indagato Toto
(Il Giornale.it)

E Silvio fa i conti «La Lega mi ha stufato»
«L'addio alle Province è nei patti, quei soldi servono»

(Il corriere.it (12 dicembre 2008)

Riporto questi titoli perché penso che supportino la tesi azzardata che avevo espresso in un post di qualche tempo fa (http://ilgattopuzzo.blogspot.com/2008/09/vedonero.html); dicevo, in sintesi, che la politica come la conosciamo sta per finire, che la destra populista ha vinto definitivamente e si prepara ad incorporare il PD in un’alleanza in cui quel partito, ridotto ai minimi termini, sarà subalterno; dicevo anche che questo nuovo blocco, che ha tagliato fuori qualsiasi istanza di sinistra anche grazie al suicidio della sinistra radicale, che non ha saputo andare oltre i vecchi paradigmi marxisti, partorirà dal suo stesso ventre la propria opposizione, che sarà la Lega; la quale, ottenuto il federalismo, si arroccherà sul territorio – dove è la sua vera ragion d’essere, senza la quale scomparirebbe - e si alleerà con formazioni territorialiste del Sud, che stanno già nascendo. Siamo completamente dentro all’orizzonte di Hegel, insomma: una tesi e un’antitesi si sono contrapposte e stanno per generare una sintesi, che stavolta assomiglierà molto alla tesi, data la sconfitta rovinosa dell’antitesi; ci sarà però una scissione della sintesi che genererà una nuova antitesi, e il nuovo scontro si protrarrà per decenni. Solo che non sarà più Destra contro Sinistra: sarà Centro contro Territorio, perché è il territorio (regione, città, quartiere) la frontiera in cui la massa ha identificato la propria linea del Piave, una volta abbandonata ogni velleità egualitaria: siamo sconfitti, ma siamo almeno padroni in casa nostra.
I pochi titoli riportati sopra sono spie del fatto, secondo me, che il processo sta accelerando: il PD è in disfacimento prima di aver davvero cominciato a esistere, travolto dalla propria inconsistenza e dalle inchieste giudiziarie, in cui trova addirittura la solidarietà interessata di Berlusconi (vedi il caso Del Turco); è scoppiata, innescata probabilmente dalle stesse forze politiche vicine a Berlusconi, la tangentopoli del Centrosinistra, che non lascerà pietra su pietra. Alla fine della giostra, ridotto più o meno alle dimensioni dell’UDC, vedrete che il PD troverà conveniente fare da stampella a Silvio, che nel frattempo sarà arrivato ai ferri corti con la Lega (e infatti il titolo: “La Lega mi ha stufato”). Ora la deve accontentare la Lega il buon Silvio, perché il federalismo lo vogliono anche la stragrande maggioranza dei suoi elettori, ma vedrete che prima di fine legislatura la scaricherà: a che pro alimentare un contropotere forte che dal territorio può fare da contraltare ai suoi progetti?
E, in vista della morte dell’opposizione di Centrosinistra, è già iniziata la lotta per l’appropriazione delle spoglie: Fini vuole portarsi a casa il bollino blu della laicità e arriva addirittura a prendersela con la Chiesa, che del resto lo ha sempre trattato come un pezzente, preferendo dialogare direttamente con il suo capo (e così, en passant, toglie pure un po’ di responsabilità dalle spalle dei suoi camerati di un tempo: come dire ‘il Fascismo sbagliò, ma gli altri dov’erano?’); la questione morale, tanto cara a Berlinguer, passa in gestione al ruspante Di Pietro, che la usa a mo’ di randello e ne svilisce parecchio i contenuti.
Il PD, da parte sua, sembra voler accelerare la convergenza, probabilmente per poter trattare da una posizione che lo vede con ancora un minimo di forza, prima che la magistratura lo travolga; sennò, come spiegare le aperture a Brunetta su quella che una volta sarebbe stata un’opzione strategica da difendere e su cui mantenere l'esclusiva (i diritti delle donne) a prescindere dalla giustezza o meno delle proposte della controparte?
Prepariamoci ai funerali del PD, anche se credo che ci sia ben poco da rimpiangere; e prepariamoci pure, almeno quelli come me, che reputano importante l’equità sociale, a finire fuori dalla Storia: la nuova opposizione territorialista sarà sì capace di intercettare quella che una volta fu la rabbia del proletariato e ora è semplicemente il livore delle periferie, ma i suoi obiettivi saranno diversi: identitari, localistici, fondamentalmente difensivi. Certo, la Storia ama sorprendere e nessun esito è scritto, ma qui da noi una forza nuova e prorompente capace di canalizzare le energie verso un progetto condiviso e non verso l’arroccamento localistico purtroppo non si vede all’orizzonte.

lunedì 15 dicembre 2008

Raccontami una storia...

Immaginate di dover scegliere se leggere una storia, un libro di barzellette o un manuale di economia e finanza.
Molti chiederanno delucidazioni sulla storia: è lunga? E’ a lieto fine? E’ edificante? Diciamo che per ora questo non ci interessa: pensate a una storia che vi piacerebbe leggere, e va bene così.
Siccome siamo in Italia, terra di scarsissime letture, mi sa che ai più interessano al massimo le barzellette di Totti; qualcuno un po’ più snob, o magari addirittura romantico, sceglierà la storia. Il manuale di economia e finanza, francamente, me lo risparmio volentieri pure io, che sono comunque costretto a consultarlo tutti i giorni, più volte al giorno, per motivi di lavoro.
Di che abbiamo parlato? Ma di politica, mi pare evidente. O meglio, di come si vincono e si perdono le elezioni.
Prendete Obama, per esempio: ha raccontato, rappresentato, interpretato una bellissima storia a lieto fine: il ragazzo povero e svantaggiato – in quanto nero - che trionfa sulle avversità con tenacia e intelligenza, e nell'ora disperata si carica sulle spalle il suo paese e lo trascina fuori dal buco nero che lo sta inghiottendo, come ha già saputo fare con se stesso.
Bush, otto anni fa, ha fatto la stessa cosa, con una storia ovviamente molto diversa: lui è salito a cavallo e, armato di lazo e di colt, ha recitato la parte del cowboy che pesta i cattivi; a me questa sua storia pareva uscita dritta dritta dal libro di barzellette, ma io alle elezioni americane non voto e a quelli che invece votano la storia è piaciuta così tanto da volerne leggere anche il seguito, quattro anni dopo. Anche se poi, alla fine, i deboli che voleva salvare lo hanno preso a scarpate. Letteralmente.
Veniamo a casa nostra. Qui abbiamo il Berlusca che, pure, non ci è andato soft: mailing a gogò con la favola della sua ascesa, e la Veronica e mamma Rosa, e bla bla bla e poi, nel dubbio che a qualcuno potesse non fregargliene una mazza delle sue due famiglie, ha prontamente tirato fuori dal cilindro un nutrito repertorio di barzellette da caserma; non fanno ridere, ma pare che lui faccia simpatia a molti, con questi tentativi generosi di suscitare il buonumore. E pure Silvio il risultato a casa lo ha portato: ha vinto tre elezioni, negli ultimi quindici anni. Non è Obama, ma per il teatrino nostro è bastato e avanzato, e lo spettacolino ha spopolato.
L’avete capito che c’entra in tutto questo il manuale di economia e finanza? Io penso di sì, ma comunque mettiamolo pure nero su bianco: il manuale di economia e finanza è ciò che ha tentato di raccontare agli elettori il centrosinistra negli ultimi quindici anni, con il sussiego dei professori di una volta, sempre pronti a bacchettare l'allievo un po' tardo di comprendonio; impapocchiandosi, per giunta. Che c'è di strano se in questi quindici anni le elezioni le hanno vinte una volta sola – nel ’96 il potere lo presero grazie al salto acrobatico della Lega, dopo aver perso nelle urne – e di misura talmente stretta da essere rimandati ignominiosamente a casa dopo nemmeno un anno e mezzo?
Per ora fermiamoci qui. Ma ci vorrei tornare su questo tema: la politica di grande respiro nasce da una narrazione. Fu una narrazione quella di Marx, una magnifica storia di oppressione, riscatto e redenzione, una vera e propria traslazione sul proletariato delle traversie del Popolo eletto, al quale Marx apparteneva in quanto ebreo; fu narrazione quella della DC, sebbene proiettata nell’oltremondano; e giù per li rami, fino a Kennedy, a Mandela, e adesso a Obama.
Anche il populismo vorrebbe raccontare storie, che però a chi è attento si rivelano per le barzellette che realmente sono (ogni riferimento a nani pelati realmente esistenti è puramente e scientemente cercato).
Il manuale di economia e finanza dovrebbe essere usato per passare al vaglio le storie e catalogarle nella categoria di competenza: narrazioni o barzellette, e quindi politica o populismo. Invece i geni del centrosinistra nostrano hanno pensato bene di abolire il canovaccio e ci hanno ammannito dal palco una bella lezione di economia teorica, spacciando oltretutto per verità acquisite una serie di panzane di cui la crisi di questi mesi sta facendo sommaria e inflessibile giustizia; chi tra loro voleva atteggiarsi a narratore ripeteva a pappagallo le storie della sinistra del secolo scorso, tacendo che lì il fine ormai è storia, e non è stato lieto.
Ad un certo punto lo ha capito Veltroni che non era parlando di percentuali e tassi di cambio che si potevano scaldare i cuori, ma ahimé: Ciccio proprio non è credibile, nelle vesti di Obama de noantri. E così eccoci qua: ci manca un’ideologia? Sì. Ci manca un leader? Forse. Ci manca un grande affabulatore? Sì, è questo ciò che ci manca più di ogni altra cosa.

venerdì 12 dicembre 2008

Dal passato remoto

Da bambino, durante le vacanze di un’estate particolarmente calda e sonnolenta, nel paesino di nemmeno duemila anime in cui vivevo allora, avevo preso l’abitudine di passare i pomeriggi a leggere l’antologia di una mia vicina di casa un po’ più grande di me; io avevo appena finito la quarta o la quinta elementare, lei andava in terza media e aveva tutti e tre i volumi di questo scrigno di sogni che non ho mai dimenticato. Erano tre volumi belli cicciotti, con nemmeno un disegno o un’illustrazione dentro, per quanto ricordo, e in copertina c’era il disegno di un leone, o di una chimera.
Sarà che in quel paesino dimenticato da Dio i libri erano merce rara negli anni settanta; o sarà che l’antologia era bella davvero, proprio non so perché mi appassionai così tanto; ma passai l’estate a leggere quei racconti, all’ombra delle ortensie giganti sulla scala esterna della casa in cui vivevo con i miei, e in cui ancora vive mia madre. Mi prese, in particolare, la fantascienza, e di quella passione non mi sono mai più liberato, se è vero che ho la libreria piena di Asimov, Bradbury, Dick e qualche decina di altri che adesso nemmeno ricordo.
A quell’antologia ho pensato spesso negli anni, ogni tanto mi tornava in mente un racconto: quello degli americani e dei russi che infine si tirano addosso le loro armi micidiali che però non sono testate nucleari – ormai superate -, ma missili caricati a gas suasivo, che converte il nemico al proprio pensiero, con il risultato che la guerra fredda ricomincia a parti invertite; o quello in cui un numero infinito di matematici va a congresso e alloggia in un albergo infinito, occupando tutte le stanze, ma c’è sempre posto quando arriva qualcun altro perché basta che tutti scalino di un posto; o l’altro, terribile, in cui Venere è descritto come un pianeta su cui piove sempre, da ere ed ere, un diluvio ininterrotto, e una pattuglia di terrestri cerca di raggiungere una cupola protetta sfuggendo ai terribili venusiani, creature acquatiche capaci di annegare un uomo facendolo soffrire per ben otto ore.
Poi pochi giorni fa la risposta: una bancarella a porta Pia, un mucchio di libri e sopra a tutti, in bell’evidenza, l’antologia con la chimera in copertina; era solo il terzo volume, l’ho preso in mano con vera emozione, l’ho sfogliato. Il gas suasivo: Dino Buzzati; l’albergo infinito: Stanislaw Lem; il diluvio su Venere: Robert Silverberg. E ce ne erano altri, a decine, gente che ora è giustamente idolatrata, ma che nell’Italia di quegli anni lì non era amatissima, soprattutto dalla cultura ufficiale. Eppure in quell’antologia c’erano tutti: Bradbury, Clarke, Brown, solo per fare qualche nome.
Ho guardato la copertina: Salinari-Calvino. C’è bisogno di dire altro?
Eppure il libro non l’ho comprato: li volevo tutti e tre, averne uno solo mi sembrava una mutilazione. Però è stato proprio bello scoprire che se quei racconti mi erano rimasti così impressi non è perché erano le mie prime prede di lettore insaziabile, ma perché li aveva scritti gente che con la penna non aveva pari. Chi dice che il genio non esiste?

mercoledì 10 dicembre 2008

Commentate, gente, commentate...

Provo a riaprire i commenti, con la speranza che chi sa di non essere ospite gradito abbia il buon gusto di starsene lontano. A tutti gli altri: ben ritrovati!

martedì 9 dicembre 2008

L'importante è esagerare

Ancora sulla pseudorealtà e sulla follia che si è impadronita di un intero popolo (il nostro): ieri sera ho un po’ orecchiato (niente di più, mi stavo voluttuosamente sparando un fumetto di Dampyr) la trasmissione di Lerner su La Sette, l’Infedele; un servizio diceva quello che le persone dotate di buon senso vanno ripetendo da secoli, e cioè che l’Italia è un paese complessivamente a bassa criminalità, come attesta il numero di crimini violenti in continuo calo da decenni e inferiore a quello della maggior parte degli altri paesi occidentali; che gli immigrati non sono poi questa banda di masnadieri, e anzi – aggiungo io – i regolari delinquono in media cinque o dieci volte, non me lo ricordo esattamente, meno dei nativi italiani; e che comunque, in barba ai babau di Bossi, Fini e compagnia ululante, gli sbarchi di clandestini sono più che raddoppiati, negli ultimi mesi. Solo che di queste cose adesso non si parla più: improvvisamente sembra tutto sparito: le rapine in villa, l’assalto dei barbari alle coste, i rapimenti di bambini da parte dei Rom; e si tace – ovviamente –di tanti fatti: ad esempio, che è stata prosciolta anche la ragazza Rom incriminata a Napoli per le urla di una madre isterica, episodio a causa del quale un campo nomadi fu dato alle fiamme: e così fanno più di venti anni che, nonostante le segnalazioni ricorrenti, non viene documentato alcun rapimento ad opera di nomadi.
E’ esagerato, a fronte di questi fatti (e ribadisco: fatti, non percezioni isteriche) definire criminale il comportamento della TV e della stampa italiane?
Io credo di no: in campagna elettorale sembrava che fossimo in stato d’assedio, con i Mori alle porte pronti a entrare per depredare, saccheggiare, sgozzare, squartare, stuprare, terrorizzare; il tutto a beneficio di un signore che sedeva all’opposizione, e che però aveva lo stesso il controllo totale di tre canali televisivi suoi e tre (teoricamente) dello Stato. Questo tizio sull’isteria collettiva che tanto abilmente ha fomentato ci ha vinto le elezioni, e ora si può anche permettere di fare ministro la sua cavallina senza che si levi un fiato in giro, tanto può l’infatuazione collettiva di sessanta milioni di innamorati sospirosi.
In breve: la TV e la stampa hanno deliberatamente alterato i fatti, dipinto una realtà che non esiste; lo hanno fatto per mesi e lo fanno ancora, invertendo semplicemente il segno del messaggio che intendono amplificare: prima eravamo sotto assedio in un paese con gli indici di criminalità più bassi d’Europa, adesso siamo in un ventre di vacca (portafogli compresi) nel bel mezzo di una crisi economica globale; e non corriamo rischio alcuno per la salute e la sicurezza, pur non facendo assolutamente nulla né per il clima, né per l’ambiente, né per l’edilizia scolastica: quanto accade di sgradevole è riconducibile alla categoria “tragica fatalità”.
La storia è stata già riscritta: Craxi, il ladrone morto latitante dopo aver depredato il paese con la sua banda e averlo messo al tappeto con l’esplosione del debito, è ora santo e martire, omaggiato dal premier e da buona parte dell’opposizione; il pool di Mani Pulite, appena quindici anni fa acclamato da un popolo intero, è responsabile della fine “di un’epoca di benessere”, sono sempre parole del nano alfa.
E i media che fanno? Per caso ripropongono i fatti di allora, o ne tentano quanto meno una interpretazione critica? Ma quando mai, meglio accodarsi e suonare la grancassa.
Insomma, viviamo in un mondo e ci comportiamo come se vivessimo in un altro; i media non si impegnano minimamente per smascherare l’imbroglio, e anzi ne sono il centro produttore. E allora torniamo a chiederci: è proprio esagerato definire criminale il comportamento di questi organi di propaganda? E chiamare regime la forma di governo che ci ritroviamo?
Sarà che a me esagerare piace, ma sono proprio queste le parole che userei.

venerdì 5 dicembre 2008

Eversione da stadio

Torniamo alla politica, dedicando qualche riga a un tema immenso per le implicazioni sociali che si porta dietro.
Chi dorme sonni tranquilli pensando che in Italia, qualunque cosa accada, non siamo a rischio di regime, secondo me dovrebbe riflettere su cosa succede ogni domenica negli stadi e mettere in fila pochi semplicissimi fatti, che provo ad elencare:
1) dopo la fine del terrorismo (quello residuale fa male, ma è solo l’illusione di un manipolo di poveracci) il tifo violento è diventato l’unica forza antagonista dotata di capacità militari. Se qualcuno ha dei dubbi, provi a pensare a cosa accadde il pomeriggio dell’omicidio di Gabriele Sandri, il tifoso della Lazio ucciso in un autogrill da un poliziotto: in poche ore formazioni ultras teoricamente rivali misero a ferro e fuoco caserme di polizia e carabinieri in tutta Italia, dimostrando una capacità di coordinamento che non è certo stata improvvisata; come e quando si sono addestrati a muoversi tutti insieme contro uno stesso obiettivo? E soprattutto: perché?
2) Quanto detto sopra rende evidente che le diverse formazioni sono sì antagoniste tra loro la domenica, ma condividono gli stessi valori e individuano quali nemici gli stessi soggetti: lo stato di diritto, a cui sarebbe spettato il compito di fare giustizia di quell’omicidio; i neri (pensate ai buuuhhh che si levano dalle curve all’indirizzo dei giocatori di colore); le minoranze in genere; i rossi (non esistono frange ultrà di sinistra, sono quasi tutti schierati su posizioni neonaziste). Del resto, basta ascoltare qualche intervista – ogni tanto ne va in onda qualcuna – per rendersi conto che questi tipi usano lo stadio come una palestra, per tenersi in allenamento, ma non è che si odino davvero, tra loro: la solidarietà violenta dimostrata proprio con il caso Sandri ne è la prova. E allora, di nuovo, la domanda: perché, a quale scopo questa gente si addestra e si esercita?
3) Molti dei criminali di guerra della ex Jugoslavia, sia in campo serbo che croato, venivano dalle curve. Ricordo, una decina di anni fa, uno striscione terribile all’Olimpico: “Onore alla tigre Arkan”; Arkan era il braccio armato di Milosevic, il genocida serbo, ed era amico di Mihajlovic, che allora giocava nella Lazio e aveva chiesto ai tifosi di issare quello striscione. In quella guerra venne fuori anche un piccolo scandalo subito messo a tacere: mercenari italiani schierati con entrambe le parti, quasi tutti provenienti da frange ultras del tifo da stadio.
4) Come è possibile che uno stato che è riuscito a venir fuori dagli anni di piombo non abbia la forza di spezzare letteralmente le reni a questa gente? La risposta, secondo me, è che non vuole: questi soggetti sono la nuova gladio, sono il serbatoio a cui attingere per la costituzione di ronde e corpi paramilitari, se dovesse – Dio ce ne scampi – venire l’ora.
Insomma, ragazzi: io penso davvero che qui c’è chi si sta preparando a fare il colpo grosso, e non da oggi; per ora non ce n’è bisogno, il popolo sovrano è abbondantemente rincoglionito dalle TV e dai reality e il nano alfa può imperare con il sorriso sulle labbra e il plauso di tutti o quasi; c’è però da vedere cosa succederà se e quando, stretta nella morsa della crisi, qualche frangia un po’ meno accomodante dovesse organizzarsi con proteste di piazza, scioperi e disobbedienza. E’ un film che dovremmo aver già visto, negli anni venti, con dei tizi in camicia nera che prima si sono messi al posto dei macchinisti scioperanti alla guida dei treni, e poi sono passati a guidare i carri armati. Ma si sa, in Italia di memoria storica non ce n’è.

Dove ho già visto quel volto?

di Cristiana Capagni - pubblicato su La Voce Democratica – n. 17-31/01/08

Camminando per la strada, entrando in banca, in un bar, nei negozi, non è raro provare la sensazione di aver già visto il volto di un passante, di un altro avventore. In parte ciò accade perché i lineamenti del viso umano, per quanto combinati fra loro in una incredibile varietà, sono riconducibili ad alcune tipologie: insomma, molte persone si somigliano davvero almeno un po’. Vi è poi l’opportunità – tanto maggiore quanto più è piccola la città in cui abitiamo – che effettivamente non sia la prima volta che incontriamo quella persona che ci è sembrato di aver già visto.
Sgomberato il campo da queste due possibilità, ve n’è una terza, per così dire più ‘moderna’: che su alcune persone siano intervenute delle modificazioni volontarie ed omologanti. Lo stile riscontrabile su diverse pazienti, pur senza che esse frequentino lo stesso chirurgo estetico, è l’espressione della moda del periodo. Perciò non è così peregrino incontrare più signore âgé che esibiscano gli stessi zigomi sporgenti, la stessa piega che rende le labbra forzosamente sorridenti, le stesse palpebre semichiuse che probabilmente vorrebbero conferire (ed è un “vorrei ma non posso”) agli occhi lo sguardo sognante dell’ineguagliabile Marylin, finendo molto spesso per dimostrare molti più anni di quelli che hanno effettivamente compiuto proprio a causa dei pesanti restyling cui si sottopongono, che le snaturano completamente e regalano a chi le incontra la fastidiosa sensazione di vivere in una società silenziosamente invasa da cloni, oltretutto anche un po’ macabri.
Viviamo in un'epoca in cui siamo governati da (falsi) ideali di bellezza, salute, successo, ricchezza... ma la vita, in quanto tale, contiene tutto ciò ed insieme il suo contrario che fa da contraltare.
Non può esistere il giorno senza la notte, né la salute senza la malattia, né il sorriso senza la tristezza o la gioventù senza la vecchiaia.
Abbiamo paura di accettare che sia così, nascondiamo la testa sotto la sabbia, cerchiamo di costruirci un'esistenza al riparo da qualsiasi dolore. Ed in questo modo viviamo una vita finta. Tanto il dolore e la delusione arrivano comunque. Allora basterebbe saperli accettare ed elaborare nel modo migliore. Servono a crescere. Così come serve a crescere la consapevolezza che non siamo eterni, se riusciamo ad ammetterlo con la maggiore serenità possibile.
Ma gli anni che stiamo vivendo sono anni di timore della morte, sono anni illuminati da una falsa luce e dunque assai bui.
Nel momento in cui avremo ben presente che il tempo che ci è concesso ha un limite, sia pur ignoto, allora vedremo ogni cosa sotto una luce diversa, più vera, e non avremo desiderio di sprecare il nostro tempo impiegando energie in fatue attività né destinando i nostri pensieri a cose del tutto inutili e senza senso. Forse smetteremo di rincorrere una finta eterna giovinezza per vivere finalmente il momento che ci è dato. Anche questo serve a crescere. E più cresceremo, più diventeremo capaci di indirizzare le nostre scelte in modo positivo, facendo un salto di qualità. E non avremo vissuto invano.

giovedì 4 dicembre 2008

Torna Cristiana...

... e ci riporta ad un tempo che pare tanto lontano, ormai... l'estate... Sigh! Le spiagge saranno state pure affollate, ma adesso le rimpiango parecchio, confesso.
Comunque, andate al posto sotto a questo, e buona lettura.

GPZ

Non rompeteci le bolle!

di Cristiana Capagni – pubblicato su La Voce Democratica 7-13 novembre 2008


Notoriamente la comunicazione avviene attraverso diverse modalità, non necessariamente linguistiche: ciascun essere vivente può assumere atteggiamenti estremamente eloquenti ed esprimere chiaramente il proprio stato d’animo attraverso i gesti, la postura, il modo di occupare o gestire lo spazio fisico che lo circonda.
Ogni essere ha un proprio spazio, che gli studiosi di semiologia definiscono zona prossemica, comunemente detta anche “bolla”, che si estende al di là del volume occupato dal proprio corpo.
Tra gli esseri umani la distanza interpersonale fisica è strettamente correlata alla distanza sociale: studi antropologici hanno determinato che esistono quattro zone prossemiche, quattro bolle la cui grandezza è inversamente proporzionale al grado di intimità con gli altri. Naturalmente la grandezza di queste bolle subisce l’influenza di fattori esterni quali cultura, nazionalità, sesso, ecc.
Le quattro bolle definite e misurate dagli studi sono le seguenti: la prima, la più piccola, è quella dello spazio intimo, riservato a partner o figli, e ha approssimativamente un’ampiezza tra gli zero e i 45 cm; la seconda, un po’ più estesa, è lo spazio che accettiamo di condividere con gli amici e va dai 45 ai 120 cm circa; la terza bolla, che va dai 120 cm ai tre metri e mezzo, è quella relativa ai conoscenti; infine la quarta, la più ampia, va oltre i tre metri e mezzo ed è la bolla della distanza pubblica.
L’esistenza di queste bolle è rivelata dall’imbarazzo o dal fastidio che solitamente si prova dovendo subire una forzosa distanza ravvicinata, ad esempio in ascensore con degli estranei o se uno sconosciuto entra in un imprevisto contatto fisico.
Pertanto, si presume che ciascuno dovrebbe sentirsi a proprio agio collocandosi in modo tale che le varie distanze vengano rispettate.
Ecco perché sfugge alla comprensione di chi scrive il motivo che spinge alcuni esseri umani ad infrangere questa meravigliosa teoria delle bolle: perché mai su una spiaggia spaziosa e assai poco gremita la comitiva chiassosa e maleducata scelga di accamparsi proprio accanto all’ombrellone sotto il quale oziano silenziosi e tranquilli villeggianti immersi nella lettura; perché in un cinema semideserto la coppia di amiche che commenterà ad alta voce l’intera pellicola come se si trovasse nel salotto di casa, decida di sedersi in prossimità di posti già occupati; perché quando ci si mette in fila le probabilità di trovare alle proprie spalle qualcuno che imporrà il contatto fisico spingendo o appoggiandosi siano altissime.
La natura umana rimane un mistero insondabile…

mercoledì 3 dicembre 2008

The Monkey race

Concludiamo il resoconto dell’avventura inglese (in realtà già finita da una settimana) saltando direttamente all’ultimo giorno; dove si narra dell’epica sfida dei sette (team) che sono scesi in campo a fronteggiarsi sul terreno per tutti infido dell’asset allocation.
Dunque, la cosa funzionava così: nella solita sala in cui abbiamo patito per sette giorni ponderosissime e altrettanto pallose presentazioni, l’ottavo giorno abbiamo trovato – senza preavviso alcuno – un tabellone all’ingresso che recava l’enigmatico titolo di “portfolio in peril” e poi, dentro, sette tavoli tondi con sopra scritti nomi come “I gondolieri”, “Carnevale”, “San Marco” eccetera; trattandosi con ogni evidenza di una simulazione di portafoglio in uno scenario economico - diciamo così - tempestoso, la scelta della città dell’acqua alta era effettivamente pertinente, richiamando originalissime metafore quali “acqua alla gola”, “nave che affonda”, e via così.
C’era pure il megaschermo, che a intervalli regolari sparava finti tiggì economici con le notizie in base alle quali si dovevano prendere le decisioni di investimento.
Infine, un tocco di sadismo: tra i partecipanti, seduta a nessun tavolo, c’era La Scimmia. La scrivo con la maiuscola, perché La Scimmia è l’incubo che incombe su ogni onesto pedalatore della finanza: qualsiasi strategia di trading uno proponga, deve dimostrare di essere almeno in grado di battere La Scimmia, essendo La Scimmia l’ovvia metafora del trader che compra e vende a casaccio (ma io non sono così sicuro che una scimmia vera farebbe davvero così, al gran casinò della finanza globale; e soprattutto non sono sicuro che non siano invece i trader, a comprare e vendere a casaccio).
Ora capirete, un conto è arrivare ultimi su sette, e passi: al ritorno in azienda si può sempre dire di essere incappati in un’accolita di fenomeni; ma come giustificare un eventuale arrivo magari manco ultimi, e però alle spalle della Scimmia?
Alla sola vista del terribile cartello posto su un tavolo vuoto siamo sbiancati tutti, compresi quelli provenienti da paesi che garantiscono quella che il nostro mitico premier definisce abbronzatura naturale (a ciò che si dice di lui in giro per il mondo dedicherò un post a parte).
Insomma, per farla breve: solito briefing, con livelli di tensione palpabile, peggio che alle corse dei go-kart di sabato; tiggì finto, pronti, via!
Ed ecco menti eccelse scatenarsi in arditissimi ragionamenti macro e micro, su economia e finanza, e il tasso di interesse della banca centrale vietnamita, e il future sul caffè honduregno, e la supercazzola… E al primo giro, ecco che l’incredibile si verifica: perdiamo subito il 10% del capitale, e poco male, perdono quasi tutti; il dramma vero è che siamo subito ultimi, e La Scimmia è in fuga davanti a noi!
Secondo tiggì, di nuovo pronti, via! Nervosismo alle stelle, tempo che incalza, consultazioni convulse, compulsare frenetico di statistiche… Tutto inutile; arriviamo disfatti e trepidanti al verdetto della borsa, e vediamo le chiappe della scimmia sempre più lontane davanti a noi, e lei corre, corre sempre più veloce, e noi arranchiamo in fondo, già tutti a pensare a come fare per non dire, per non raccontare l’onta…
E poi per brevità non vi racconto il resto, ma sappiate, o lettori miscredenti, che le cose sono andate esattamente al contrario di come tutti vi aspettate: dal terzo giro in poi abbiamo vinto tutte le manche, nessuna esclusa, e l’ultima è stata una cosa da cardiopalmo: davanti a noi (che eravamo I Gondolieri) ci sono soltanto quelli del Danieli, e proprio di un’incollatura: e che ve lo dico a fare, li abbiamo bruciati proprio sulla linea d’arrivo, di un’inezia, e abbiamo vinto noi, salti di gioia, baci e abbracci, e pure una scatola di cioccolatini come trofeo! E vai che siamo dei fenomeni – pacca sulla spalla -, ma hai visto come abbiamo intuito subito la recessione in Cina, e poi la manovra di copertura, lo sapevo che il dollaro scendeva anche se tutti scommettevano al rialzo, e bla e bla bla bla bla!
BLA!
Per la verità, a me è parso più che altro che abbiamo avuto un culo mostruoso; alla luce delle notizie che, di tiggì in tiggì, giustificavano a posteriori le salite e le discese del nostro portafoglio, c’era davvero poco da intuire: recessione in Cina, sì, ma causata da un terremoto, e il dollaro crollava in seguito a non mi ricordo quale cataclisma geopolitico, e così via. Che è pure una bella lezione per tutti quelli che pensano che un gestore capace di fare profitti per un lungo periodo è bravo, e gli affidano tutti i propri risparmi: random walk chiamiamo questo fenomeno noi statistici, passeggiata aleatoria; si caratterizza per poter andare infinitamente su e anche infinitamente giù, infilando a volte serie consecutive di su-su-su o giù-giù-giù da far straparlare la gente di “chiare tendenze rialziste”, o ribassiste, mentre in realtà il mondo se ne va a casaccio e i risparmi a puttane.
E così la nostra gara, per il disappunto degli altri membri del team, io l’ho ribattezzata The monkey race: non c’era una sola scimmia, ce n’erano sette vere più una virtuale, e la gara è consistita non nel vedere chi era il gestore più bravo, ma solo quale fosse la scimmia più fortunata; ma, purtroppo…The trouble with the monkey race is that even if you win, you're still a monkey… Ma questa l’ho presa in prestito da Lily Tomlin che la disse a proposito di The rat race, dove i ratti stanno al posto delle scimmie.

martedì 2 dicembre 2008

Al rogo al rogo!

Oggi il Vaticano si è espresso contro la depenalizzazione dell’omosessualità, come a dire che ritengono giusto che i gay vadano in galera e siano magari frustati, in quei paesi dove questo è consentito e anzi prescritto per legge.
Hanno però precisato, bontà loro, che “nessuno vuole la condanna a morte dei gay”, per bocca di non mi ricordo quale cardinale.
E’ la migliore risposta a quanti vanno blaterando – Marcello Pera ne è il portabandiera - che per arginare l’integralismo islamico dovremmo stringerci intorno alla nostra (ma nostra di chi? Mia no di certo) religione, che è illuminata e tollerante. E se gli dici, a questi tipi, che nei secoli i preti hanno bruciato, torturato, frustato, terrorizzato, ammazzato, ti rispondono che sono fatti del passato. Del passato, sì, ma non certo grazie alla loro capacità di emendarsi: se abbiamo superato certi orrori è stato solo per la forza delle istituzioni che hanno saputo contrapporsi al clericalismo, per la capacità di penetrazione del pensiero illuminista, ma anche di quello liberale e di quello marxista; fosse stato per loro, avrebbero continuato allegramente a squartare i miscredenti. Come, con tutta evidenza, ancora sognano di fare. E magari a squartarli non ci riusciranno, ma a dargli (darci) una bella razione di manganello prima o poi ci arriveranno, grazie a questi geni che ci invitano ad appecoronarci davanti a lor signori. Che si sa, gli islamici sono pericolosi, meglio i nostri. Personalmente, però, confesso di non riuscire a provare sollievo alcuno, quando mi frustano, dalla consapevolezza che a farlo è un prete, e non un mullah.