giovedì 29 gennaio 2009

Come si scrive in paradiso

Periodicamente, come penso accada a qualche altro milione di persone, mi salta su il ticchio di scrivere un mio libro: ci fantastico su, ne immagino la trama, l'incipit, il titolo, tutto funziona... Certo, manca il libro, ma ne sono capace, lo so!
Per evitare di perdere inutilmente tempo, di solito rileggo un racconto di Buzzati, tanto per toccare con mano cosa significa scrivere: che non è Moccia, ovviamente. Perché Buzzati è proprio un'altra cosa: stile, immaginazione, leggerezza, applicate al più terribile dei temi: l'insensatezza della nostra esistenza. E ahimè, io non sarò mai capace di tanto, per cui lasciar perdere è di certo l'opzione migliore. Meglio oziare in poltrona a godersi quello che ha scritto lui, piuttosto che sfacchinare alla tastiera nel tentativo vano di tirar fuori qualcosa di anche lontanamente paragonabile.

mercoledì 28 gennaio 2009

I vestiti nuovi di Gianfranco

In ordine sparso: Ratzinger revoca la scomunica ai vescovi ultratradizionalisti nonostante uno di loro se ne sia uscito l’altro ieri (e molte altre volte, da vent’anni a questa parte) con tesi negazioniste dello sterminio nazista degli ebrei; del resto, il sospetto che il Ratz sia antisemita mi sa che non è del tutto campato per aria, visti i ripetuti incidenti di questo pontificato con i cugini maggiori; a cominciare dal ripescaggio della ormai muffita “preghiera per la conversione degli ebrei”. E chi è l’unico politico che alza la testa? Gianfranco Fini.
La Chiesa
vuole beatificare il pontefice che chinò la testa davanti al nazifascismo e alle leggi razziali, e chi è che richiama a voce alta e inchioda le gerarchie alle responsabilità di allora? Fini.
Che è anche quello che propose di concedere il voto agli immigrati, almeno quello amministrativo, e di abbreviare l’iter per la cittadinanza.
Che qualcosa di appena appena assimilabile l’abbia detto qualche esponente del PD, io non me lo ricordo.
Un sacco di anni fa, quando Fini era candidato a Roma come sindaco contro Rutelli, ci furono alcuni episodi di ordinaria violenza urbana da parte di alcuni sostenitori un po’ troppo esuberanti del nostro Gianfranco, che allora era ancora fascistello anzichenò; e, se non ricordo male, i ragazzotti si lasciarono andare anche a qualche azione antisemita, per l’imbarazzo del loro candidato.
Sul mai dimenticato Cuore uscì un titolo che mi fece schiattare dal ridere: “Fini: voto Rutelli, questi fascisti mi fanno paura”.
Certo, se uno ragiona non è che si possa davvero illudere sull’approdo laico di questo signore: che è lo stesso che appena qualche anno fa se ne uscì con l'attacco ai docenti gay, che a suo dire avrebbero essere estromessi dall'insegnamento. E' che, per condirla con il gergo del marketing, il buon Gianfranco ha fiutato un nuovo target e si è riposizionato: vuole consolidare la penetrazione – ormai avvenuta – della sua parte politica dentro la comunità ebraica, imbarcando magari per strada qualcuno che alla sua nuova vena laica ci crede davvero; tanto, il buon Ratz ha già scelto Silvio come longa manus politica – lui tratta solo con i capi - ed è difficile che il nostro possa rientrare nelle sue grazie, per cui… tanto vale fare di necessità virtù e brandire la bandiera della laicità.
La cosa bella è che, grazie ai balbettii incomprensibili di PD e compagnia, riesce pure a sembrare credibile, con questi nuovi vestiti. Chi se lo sarebbe mai sognato, quindici e più anni fa, che quel titolo di Cuore sarebbe stato premonitore?

martedì 27 gennaio 2009

Quello che vogliono farci credere /2

Ancora di Luigi Ferrarella, che questa volta scrive di intercettazioni, in modo molto documentato. I grassetti invece li ho messi io, per evidenziare i fatti che più mi hanno colpito.
Dal Berlusca ad Alfano per finire - ultimo adepto - a Veltroni, è evidente che tutti mentono. Sapendo di mentire? O non sapendolo? Non so se è peggio la prima o la seconda. Io, nel dubbio, opterei per la prima.

Leggende spacciate per verità

di Luigi Ferrarella
Il Corriere della Sera - 10 giugno 2008


Una sfilza di luoghi comuni, spacciati per verità, compromette la serietà della discussione sull’annunciato intervento legislativo sulle intercettazioni. Che siano «il 33% delle spese per la giustizia», come qualcuno ha cominciato a dire e tutti ripetono poi a pappagallo, è un colossale abbaglio: per il 2007 lo Stato ha messo a bilancio della giustizia 7 miliardi e 700 milioni di euro, mentre per le intercettazioni si sono spesi non certo 2 miliardi abbondanti, ma 224 milioni. Però è una leggenda ben alimentata. Si lascia credere il falso giocando sull’ambiguità del vero, cioè sul fatto che le intercettazioni pesano davvero per un terzo su un sottocapitolo del bilancio della giustizia: quello che sotto il nome di «spese di giustizia» ricomprende anche i compensi a periti e interpreti, le indennità ai giudici di pace e onorari, il gratuito patrocinio, le trasferte della polizia giudiziaria. Spese peraltro tecnicamente «ripetibili», cioè che lo Stato dovrebbe farsi rimborsare dai condannati a fine processo: ma riesce a farlo solo fra il 3 e il 7%, eppure su questa Caporetto della riscossione non pare si annuncino leggi-lampo.
«Siamo tutti intercettati» è altra leggenda che, alimentata da una bizzarra aritmetica «empirica», galleggia anch’essa su un’illusione statistica. Il numero dei decreti con i quali i gip autorizzano le intercettazioni chieste dai pm non equivale al numero delle persone sottoposte a intercettazione.
Le proroghe dei decreti autorizzativi sono infatti a tempo (15 o 20 giorni) e vanno periodicamente rinnovate; inoltre un decreto non vale per una persona ma per una utenza. Dunque il numero di autorizzazioni risente anche del numero di apparecchi o di schede usati dal medesimo indagato (come è norma tra i delinquenti)
.
«Le intercettazioni sono uno spreco» è vero ma falso, nel senso che è vero ma per due motivi del tutto diversi da quello propagandato. Costano troppo non perché se ne facciano troppe rispetto ad altri Paesi, dove l’apparente minor numero di intercettazioni disposte dalla magistratura convive con il fatto che lì le intercettazioni legali possono essere disposte (in un numero che resta sconosciuto) anche da 007, forze dell’ordine e persino autorità amministrative (come quelle di Borsa).
Invece le intercettazioni in Italia costano davvero troppo (quasi 1 miliardo e 600 milioni dal 2001) perché lo Stato affitta presso società private le apparecchiature usate dalle polizie; e in questo noleggio è per anni esistito un Far West delle tariffe, con il medesimo tipo di utenza intercettata che in un ufficio giudiziario poteva costare «1» e in un altro arrivava a costare «18». Non a caso Procure come la piccola Bolzano (costi dimezzati in un anno a parità di intercettazioni) o la grande Roma (meno 50% di spese nel 2005 rispetto al 2003 a fronte di un meno 15% di intercettazioni) mostrano che risparmiare si può. E già il ddl Mastella puntava a spostare i contratti con le società private dal singolo ufficio giudiziario al distretto di Corte d’Appello (26 in Italia).
L’altra ragione del boom di spese è che, ogni volta che lo Stato acquisisce un tabulato telefonico, paga 26 euro alla compagnia telefonica; e deve versare al gestore circa 1,6 euro al giorno per intercettare un telefono fisso, 2 euro al giorno per un cellulare, 12 al giorno per un satellitare. Qui, però, stranamente nessuno guarda all’estero, dove quasi tutti gli Stati o pagano a forfait le compagnie telefoniche, o addirittura le vincolano a praticare tariffe agevolate nell’ambito del rilascio della concessione pubblica.
«Proteggere la privacy dei terzi», nonché quella stessa degli indagati su fatti extra-inchiesta, non è argomento (anche quando sia agitato pretestuosamente) che possa essere liquidato con un’arrogante alzata di spalle. Ma è obiettivo praticabile rendendo obbligatoria l’udienza-stralcio nella quale accusa e difesa selezionano le intercettazioni rilevanti per il procedimento, mentre le altre vengono distrutte o conservate a tempo in un archivio riservato. E qui proprio i giornalisti dovrebbero, nel contempo, pretendere qualcosa di più (l’accesso diretto a quelle non più coperte da segreto e depositate alle parti) e accettare qualcosa di meno (lo stop di fronte alle altre).
Prima di dire poi che «le intercettazioni sono inutili»andrebbe bilanciato il loro costo con i risultati processuali propiziati. Ed è ben curioso che, proprio chi ha imperniato la campagna elettorale sulla promessa di «sicurezza» per i cittadini, preveda adesso di eliminare questo strumento che, per fare un esempio che non riguarda la corruzione dei politici, ha consentito la condanna di alcune delle più pericolose bande di rapinatori in villa nel Nord Italia, e ancora ieri ha svelato a Milano il destino di pazienti morti in ospedale perché inutilmente operati solo per spillare rimborsi allo Stato. Senza contare (c’è sempre del buffo nelle cose serie) che proprio Berlusconi ben dovrebbe ricordare come un anno fa siano state le intercettazioni, che ora vorrebbe solo per mafia e terrorismo, a «salvare» in extremis da un sequestro di persona il socio di suo fratello Paolo.
Ma il dato più ignorato, rispetto al ritornello per cui «le intercettazioni costano troppo», è che sempre più si ripaganoFino al clamoroso caso di una di quelle più criticate per il massiccio ricorso a intercettazioni, l’inchiesta Antonveneta sui «furbetti del quartierino». Costo dell’indagine: 8 milioni di euro. Soldi recuperati in risarcimenti versati da 64 indagati per poter patteggiare: 340 milioni, alcune decine dei quali messi a bilancio dello Stato per nuovi asili. Il resto, basta a pagare le intercettazioni di tutto l’anno in tutta Italia.

lunedì 26 gennaio 2009

Quello che vogliono farci credere

Mi risparmio la fatica di dire cosa penso di certe levate di scudi, visto che c'è chi lo sa dire meglio di me. Il testo che segue è tratto dal sito del Corriere della Sera, a firma di Luigi Ferrarella, e lo sottoscrivo in pieno. Anzi, aggiungo: la custodia cautelare in carcere è stata limitata soprattutto per l'esigenza bipartisan di amministratori che, una volta colti con le mani nel sacco, si producevano in alti lai contro l'inciviltà di un sistema che metteva in galera la gente senza averla ancora condannata (sistema che però andava bene, quando a finire in galera per un mero sospetto erano poveri cristi e simpatizzanti di sinistra nemmeno troppo estremi). Ora quegli stessi politici additano all'opinione pubblica obnubilata i cattivi giudici che quasi legalizzano uno stupro: e no, belli miei... Le leggi le fate voi, i giudici potranno essere anche dei cabrones, ma a loro sta applicarle, non interpretarle. Se volete vedere il tizio in galera, vi si chiede una atto di coraggio: siete pronti ad andarci anche voi?


La politica inganna l'opionione pubblica sul caso dello stupratore di capodanno

Il violentatore non se l'è cavata
La custodia cautelare non è affatto l'anticipazione del futuro «castigo» che il «colpevole » meriterà

È crudele che la politica inganni l'opinione pubblica alimentando nei cittadini l'equivoco alla base delle polemiche sugli arresti domiciliari chiesti dalla Procura di Roma per il violentatore di una ragazza a Capodanno, come se costui l'avesse fatta franca per il solo fatto di essere oggi agli arresti a casa invece che in carcere.
Nell'ordinamento vigente, infatti, la custodia cautelare non è affatto l'anticipazione del futuro «castigo» che il «colpevole » meriterà per il delitto commesso, non è un antipasto della punizione, non è il modo di risarcire la parte lesa per il male patito e la collettività per l'infrazione alle regole. La punizione per il dolore arrecato alla vittima, la pena equa per il delitto commesso, la sanzione che potrà disattendere le giustificazioni «buoniste» abbozzate dall'indagato (ero drogato, non ero in me, sono pentito), vanno chieste alla sentenza del processo, non adesso, alla carcerazione del giovane. La custodia cautelare in carcere, invece, è solo uno strumento utilizzabile dai magistrati, per un limitato periodo di tempo e se ve ne sia motivo ricavato da specifici elementi, per tutelare la genuinità delle indagini dal pericolo di inquinamento delle prove, per neutralizzare il pericolo che l'indagato fugga, per contenere il rischio che ricommetta il reato.
Tre esigenze cautelari che, nel caso dell'indagato romano (reo confesso, incensurato, facilmente controllabile nell'abitazione dei genitori) il pm ha valutato soddisfatte già dagli arresti in casa in attesa del processo. Soluzione che, ad esempio, potrebbe invece non essere percorribile per un italiano con precedenti penali specifici; o per lo straniero sospettato di uno stupro, che potrebbe restare in carcere a motivo non di un discrimine etnico, ma dell'assenza di un domicilio certo che lascerebbe permanere il pericolo di irreperibilità e quindi di reiterazione del reato. Tutto ciò la politica sa benissimo, ma si guarda bene dallo spiegarlo ai cittadini. Anzi continua a smarrirli e disorientarli, per esempio alimentando l'illusione per cui, se «è la legge sbagliata», allora «la si cambierà» in modo che per reati gravi come lo stupro la carcerazione prima del processo «sia obbligatoria»: è una presa in giro, giacché chi la propone sa bene che la Consulta ha più volte rimarcato che contrasterebbe con i principi costituzionali qualunque norma che stabilisse per alcuni reati l'automatica applicazione della custodia cautelare in carcere, ribadendo invece che in base a quei principi deve essere sempre lasciato al giudice uno spazio di valutazione dell'indagato-concreto nel caso-concreto. Ma l'assurdità e al tempo stesso la contraddizione più clamorose arrivano da quella politica che, negli arresti domiciliari all'indagato per stupro, censura l'assenza di «pene esemplari senza pietà » (come da destra il ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna), o si duole che «così passi un messaggio di non gravità dello stupro» (come da sinistra la sua collega del Pd, il ministro-ombra Vittoria Franco).
Assurdo, perché il compito dei magistrati non è lanciare «messaggi» sui «fenomeni», e nemmeno produrre «esemplarità», ma giudicare singole persone in casi concreti. E contraddittorio, perché una magistratura che lanciasse «messaggi», o producesse «esempi», farebbe non il proprio lavoro ma supplenza della politica o della sociologia: cioè proprio quello che la politica critica, e a ragione, quando è la politica a subire quella «messaggistica» o quegli aneliti di «esemplarità» che talvolta affiorano nelle pieghe di provvedimenti giudiziari confusi, sovrabbondanti, sproporzionati. Più utile forse del rituale invio di ispettori ministeriali alla Procura di turno, forse sarebbe dare concretezza ai tante volte annunciati, e altrettante volte rimandati o tenuti a bagnomaria, interventi pratici per velocizzare la celebrazione dei processi. Anche nel caso dello stupro romano, infatti, è su questo terreno che si giudicherà davvero la capacità dello Stato di dare una reale risposta alla ragazza violentata: non sulla manciata in più o in meno di giorni in carcere preventivo per il suo violentatore adesso, ma sulla rapidità di approdare al dibattimento, di celebrarne con le ordinarie garanzie il giudizio, e di assicurare l'effettività della pena definitiva.

Luigi Ferrarella
26 gennaio 2009

domenica 25 gennaio 2009

La pensione delle donne

di Cristiana Capagni
pubblicato da La Voce Democratica – 16-22 gennaio 2009


La Corte di Giustizia Europea ha giudicato iniquo che le donne in Italia potessero (volendo) accedere alla pensione cinque anni prima dei colleghi maschi. Una di quelle volte (neppure tanto rare) in cui le donne usufruiscono di un trattamento di favore. Naturalmente ciò varrebbe come un semplice invito, poi all’interno della Comunità ciascuno Stato fa da sé, ma da noi figurarsi se non c’era qualcuno pronto a cogliere al volo l’idea.
Il sospetto che, ammantata sotto le nobili vesti della parità dei diritti, sieda sullo scranno una solenne fregatura è più che lecito. Fregatura peraltro sollecitata tempo addietro proprio da una rappresentante del sesso in questione, una più realista del re, che forse se stava zitta magari lassù al tribunale del Lussemburgo non ci pensavano nemmeno.
Intendiamoci, è nostra convinzione – peraltro espressa in diverse occasioni – che l’uguaglianza appartenga a tutti, altrimenti che uguaglianza è, non si può essere più uguali o meno uguali: si è uguali e basta. Il godimento dei diritti di parità riguarda tutti. Niente trattamenti di favore, grazie. Eppure. La maggioranza delle persone, di quelle pensanti almeno, è d’accordo nel ritenere che alcune categorie di lavoratori debbano giustamente avere accesso alla pensione con qualche anno di anticipo rispetto alla norma. E’ il caso dei lavori considerati usuranti (e non certamente della vergogna delle cosiddette “pensioni baby” di cui oggi pagano il salato prezzo quei salariati che in pensione rischiano di non andarci mai). Esistono lavori che, per la loro pesantezza fisica o per lo stress cui sottopongono le persone che li svolgono, usurano, fanno invecchiare prima. E fanno giustamente guadagnare il meritato riposo retribuito con un certo anticipo.
Nel nostro Paese una persona di sesso femminile si fa carico in misura maggiore delle faccende domestiche e di quanto ruota attorno alla propria famiglia, dal momento che una concreta parità non è stata raggiunta e chissà ancora quanto tempo passerà prima che ciò accada. Inoltre la differenza tra un corpo di sesso maschile ed uno di sesso femminile, che si esplicita all’incirca una volta al mese per alcuni giorni ogni volta e per decenni nell’arco della vita, come la goccia che scava la pietra lascia un solco - di misura variabile da donna a donna - sul benessere fisico il quale risulterà intaccato anche dalle gravidanze e dagli allattamenti. Tutte cose che ti consumano. E che con la parità c’entrano poco o nulla: contro madre natura c’è poco da fare. A parità di età, nella maggioranza dei casi una donna è più stanca. Ma stanca davvero. Perché essere donna è un lavoro usurante.

giovedì 22 gennaio 2009

Quello che...

Avrei voluto diventare...

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Ma invece ero solo...


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E mi sentivo sempre sotto esame...

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Non dico di non aver fatto incontri interessanti...

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Però gli anni passavano e la felicità non arrivava...


Ma poi ho incontrato...


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E direi che è andata bene lo stesso, no?



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Le animazioni le ho prese qui:

Animations - Animated Graphics for Myspace, Hi5, Orkut



martedì 20 gennaio 2009

La seconda lezione di economia

Questa mi tocca farla seria anche se non sono all’altezza, perché se ne sentono di talmente grosse che a non dire niente prude la lingua. Oltre che le mani.
Allora, dice il nano alfa (e il suo commercialista – ora ministro dell’Economia - avalla) che perdere il due percento di prodotto interno lordo non è un dramma: è come tornare al 2006, quando certo non stavamo nelle caverne.
Premesso che piacerebbe anche a me vivere in un mondo in cui produrre meno (e quindi consumare meno, sprecare meno) non fosse un dramma, resta il fatto che noi viviamo invece in questo mondo, in cui il PIL è costretto a crescere sempre. Il perché si può spiegare in tanti modi, ma il nocciolo sta in due circostanze: la prima è che, a meno di non fermare del tutto l’innovazione, ogni anno diventa possibile produrre quello che si era prodotto l’anno prima usando meno risorse, e quindi generando disoccupazione; la seconda ragione è che se la popolazione in età lavorativa cresce bisogna dare lavoro a più gente, e quindi – ancora – il PIL deve crescere. Questa sembrerebbe riguardarci un po’ meno come paese, ma se pensiamo a quanta gente non lavora e vorrebbe (qualche volta dovrebbe) ci rendiamo conto che queste spine nel fianco ce le abbiamo tutte e due, senza circostanze attenuanti.
Che fare per uscirne? Fermiamo il progresso tecnico e organizzativo? Lo limitiamo a quei casi in cui serve al bene di tutti, cioè magari lo sdoganiamo quando si inventa un macchinario medicale e lo blocchiamo se invece qualcuno tira fuori una macchina che sostituisce il lavoro degli esseri umani? Difficile tracciare il confine, e oltretutto la cosa non mi pare possa avere successo: il paese che decidesse di fare così imboccherebbe la via del declino e, producendo a prezzi alti prodotti poco appetibili, verrebbe semplicemente surclassato da quelli che invece spingono sull’innovazione e sulla crescita della produttività; le sue aziende chiuderebbero e la gente – a milioni – resterebbe senza lavoro*.
Ecco, noi viviamo in un mondo così, in cui perdere due punti di PIL significa mandare a casa la gente; e quale gente, poi: non chi ha già consolidato una posizione economica e magari accumulato riserve che gli permetterebbero di passare la nottata, ma i precari, la gente al margine, quella più debole, che già oggi non si capisce bene se stia dentro o quasi fuori.
In un paese democratico la stampa e la TV spedirebbero legioni di giornalisti a intervistare un qualche guru dell’economia - di quelli a cui piace tanto pavoneggiarsi nei salotti, ma che in questo momento latitano - con un preciso mandato, che dovrebbe essere quello di fargli dire: “il Presidente del Consiglio e il suo ministro dell’Economia hanno detto una solenne cazzata”. Prima sono uscito in bicicletta, ma di queste pattuglie in giro non ne ho viste…

* Oddio, mi sovviene che, se la mettiamo sulla produttività – che notoriamente da noi scende invece di salire, essendo i nostri illuminati capitalisti innovatori più o meno quanto lo sono i rumeni -, ci tocca concludere che è proprio la china discendente la strada che stiamo percorrendo; allora sì, dovremmo dire che il nano alfa ha ragione: non è un dramma perdere in un colpo due punti di PIL e i posti di lavoro annessi, tanto li avremmo persi comunque, solo un po’ più tardi. E si sa, a lui piace sempre portarsi avanti con il lavoro.

lunedì 19 gennaio 2009

Social ass

Che la social card sia una presa per il culo lo sapevo, però lo dico lo stesso, perché è mezza mattinata che sto impazzendo nel tentativo di capire come si fa a farla caricare. E sì, perché c’è cascata pure mia madre. La tessera era vuota, e non solo: s’è pure accorta che il commerciante aveva gonfiato il conto, “tanto mica paga la signora”, così nel caso la card fosse stata piena l’elemosina sarebbe stata captata, in buona parte, da questo figuro già abbondantemente beneficiato dal governo Berlusca sotto forma di licenza di evadere.

Se ne era occupata la trasmissione Mi Manda Rai Tre, e per dirla con la Littizzetto: “mamma mia, che scandalo! Sai che casino che succede domani!”, e invece no, non succede assolutamente un cazzo, perché in rete non si trova un suggerimento che è uno su come fare per far caricare quella maledetta card, e i giornali la notizia l’hanno data così, tanto per darla, non è che ci hanno fatto sopra un servizio degno di questo nome, costringendo chi di dovere a scusarsi e a dire ai “beneficiati” (lo metto tra virgolette perché è davvero una presa per il culo) a chi rivolgersi, cosa fare. Se chiami il call center puoi provare pure tutti i numeri della tombola, ma cosa fare non te lo dice nessuno e, soprattutto, parlare con un essere umano è del tutto impossibile.

Mia madre, per fortuna, i soldi per pagare comunque ce li aveva; non voglio neppure pensare a come si devono essere sentiti quelli che, invece, hanno dovuto rimettere la merce negli scaffali.

Io farò così: lascio perdere, mando una lettera a un po’ di giornali (che tanto non verrà pubblicata) e alla mia mamma faccio io un bel regalo. Non ho ancora deciso cosa, ma sarà un bel regalo. Alla faccia di questa manica di teste di cazzo.

giovedì 15 gennaio 2009

A teatro: acquari e fritture

Ieri sera io, la mia signora e una coppia di amici siamo andati a vedere Marco Paolini, al teatro Argentina di Roma. Lo spettacolo era Miserabili - Io e Margaret Thatcher. Noi Paolini ormai lo compriamo a scatola chiusa, le sue cosiddette “orazioni civili” ci hanno conquistato diversi anni fa, quando il genere (e lo stesso Paolini) erano ancora cose nuove; così, nemmeno ci siamo preoccupati di sapere di cosa si trattasse. Abbiamo rischiato, perché lo spettacolo era parecchio diverso da quelli a cui eravamo abituati: più cerebrale, giocato su un piano comunicativo meno immediato di quanto ci saremmo aspettati. A me è piaciuto lo stesso tantissimo, probabilmente perché i temi che ha affrontato sono quelli che da diversi anni appassionano anche me: l’economia, la svolta degli anni ottanta del novecento, quando il mondo sarebbe potuto andare in una certa direzione e invece la Thatcher e Reagan lo mandarono da un’altra parte; la scienza, e come certi suoi paradigmi recenti (e meno recenti) sembrino attagliarsi benissimo alla crescente disarticolazione delle nostre società.
Fantastico l’esempio del secondo principio della termodinamica (che in sala peraltro nessuno conosceva): se hai un acquario e vuoi fare una frittura, non è detto che tu poi possa riavere l’acquario. Leggi: se una società la riduci a un insieme di monadi non comunicanti in nome dell’individualismo rampante, quando ti accorgerai di aver di nuovo bisogno di una società (come per esempio in questi ultimi anni, in cui la grande abbuffata è finita e i nodi stanno venendo al pettine) non è detto che tu riesca a ricostruirla. E poi, a dosi magari un po’ meno massicce del solito, ci ha somministrato il solito Paolini istrionico, popolare, un po’ nostalgico. Stavolta mi è sembrato di percepire anche una punta di cattiveria, come se non amasse particolarmente il pubblico che aveva davanti, “colpevole” di essere in un uno dei teatri più belli di Roma a un prezzo non proprio popolare, e quindi corresponsabile dello sfascio che lui denunciava, o almeno ad esso accondiscendente; se fosse così non sarebbe una cosa molto simpatica, né corretta (quel biglietto non proprio economico alla fin fine se lo intasca lui, in buona percentuale). Ma probabilmente mi sono sbagliato, e ho solo interpretato male alcuni di quei passaggi in cui il nostro si diverte a sfottere il suo pubblico.

mercoledì 14 gennaio 2009

La cattiveria

Fecondazione, il punto sulla legge
L'Italia penalizza chi vuole un figlio

Questo titolo, ieri mattina, stava sulla home page di Repubblica.it; dopo mezza giornata, se qualcuno avesse voluto leggerlo, lo avrebbe dovuto rincorrere dentro http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/cronaca/fecondazione-artificiale/fecondazione-artificiale/fecondazione-artificiale.html. Parla di un convegno sulla fecondazione assistita che si è tenuto a Roma, con la partecipazione di esperti al massimo livello.

E' chiaro che nel corso della giornata si deve essere imposta una revisione delle priorità a causa del sopravvenire di importanti notizie, tipo questa:

Grande Fratello 9, ascolti boom
X-Factor cede ma supera se stesso

Vorrei piantarla qui, il fatto si commento da solo, ma l'articolo oscurato contiene parecchie informazioni interessanti che andrebbero diffuse e invece vengono nascoste; qui mi leggete, se non sbaglio, in dieci o dodici quando va bene; OK, saranno dieci o dodici persone in più a conoscere qualcosa che non deve essere ignorato. Faccio il copia e incolla di qualche pezzo ad alto impatto informativo, ma vi consiglio di andare a leggere il resto (se non lo fanno scomparire definitivamente):

[...] Altro punto importante, quello della diagnosi preimpianto, vietata dalla legge. Ma resta irrisolto anche il nodo delle coppie portatrici di patologie genetiche, che a tutt'oggi non possono accedere alle tecniche, riservate solo alle persone sterili.[...]

[...] In appena tre anni le possibilità di avere un figlio grazie alla fecondazione assistita sono scese nel nostro paese dal 25% del 2003 al 21% del 2006 (fonte: registro nazionale PMA).[...]

[...] Questo che cosa significa? La risposta la dà il professor Michael Chapman, direttore della Fertility Society australiana. "Mortalità prenatale da due a tre volte più alta, ricoveri nelle rianimazioni neonatali 5 volte maggiori, 4 volte più alta la percentuale di paralisi cerebrale. Con costi economici da 5 a 10 volte maggiori. [...]

[...] Ancora oggi, infatti, chi sta per sottoporsi a chemioterapia o ad altre terapie aggressive non sa che può congelare gli spermatozoi (per l'uomo), gli ovociti o porzioni di tessuto ovarico (per la donna) e sperare che, dopo la cura, possa ancora avere figli.[...]

"[...] Vogliamo che nei consensi informati ci sia scritto che alcune terapie sono a rischio sterilità [...] e che i pazienti possano sapere che ci sono delle opzioni per conservarla. La maggior parte non è informata, e parliamo di malati giovani ai quali viene tolta la possibilità di avere figli".[...]

Chiaro? Allora, mettiamo in fila un po’ di fatti, che comunque uno la pensi in proposito dovrebbero (almeno quelli!) essere incontestabili; intanto i responsabili di tutto questo hanno nome e cognome e si chiamano (per limitarci ai più noti) Ratzinger, Casini, Binetti, Berlusconi (per pura ignavia, sai che gliene frega a lui se i figli li vai prendere anche sotto i cavoli), Rutelli.
Poi andiamo sul De Mauro-Paravia on line, dove possiamo leggere alcune definizioni:

a) uccidere: privare della vita, far morire, specialmente con mezzi o modi violenti; ricordiamo quanto riportato sopra: […] Mortalità prenatale da due a tre volte più alta, ricoveri nelle rianimazioni neonatali 5 volte maggiori.
b) tortura: qualsiasi sevizia o atto di crudeltà fine a se stesso o inflitto per pura brutalità o per vendetta; il pezzo in questione ad un certo punto diceva: […] ricoveri nelle rianimazioni neonatali 5 volte maggiori, 4 volte più alta la percentuale di paralisi cerebrale.[…]
c) ipocrisia: simulazione di buone qualità o di buoni propositi attraverso azioni o atteggiamenti falsamente virtuosi, per ingannare qualcuno o per ottenerne i favori. A questo proposito qualcosina la dico io: i signori di cui sopra si ostinano in chiara malafede a far credere (a chi ci vuol credere, è chiaro) che le norme demenziali della legge 40 servano a disciplinare in maniera civile una materia complessa, quando invece è evidente a tutti quelli che vogliono vedere che servono soltanto a mantenere saldo il diritto di veto dei preti e la facoltà loro concessa di esercitare con pugno di ferro un potere che nessuno gli ha mai democraticamente riconosciuto. Tutto grazie ad un folto gruppo di neocon, teocon, teodem o come si vogliono chiamare, grazie al cui atteggiamento appecoronato e bigotto (e spesso interessato) questa cricca rimane ben salda al potere. Sono simili a quei tedeschi che accettarono di lavorare nei campi di concentramento. Spero che un giorno la storia farà giustizia di questo letame umano.

domenica 11 gennaio 2009

Dietro al sipario

Voto o non voto?
Avessi detto una cosa del genere davanti a mio padre, sarei stato cacciato di casa e disconosciuto come figlio. Ma questo sarebbe potuto accadere vent’anni fa: ora lui non c’è più, e io vivo in una casa e in un mondo che non sono più i suoi. A volte, a dire il vero, questo mondo mi sembra anche poco mio, nonostante io non sia certo Matusalemme.
Il fatto è che la scuola che ho frequentato io era molto trombona e anche conformista, ma comunque antifascista e impregnata di valori risorgimentali, e a casa un papà comunista come “er Principe” di Verdone - quello che diceva di non essere comunista “così”, e faceva il saluto a pugno chiuso con un braccio, ma “così”, e rifaceva il saluto con tutte e due le braccia – la sera mi cantava “fischia il vento” e “Bella ciao”; mi hanno cresciuto con gli aneddoti edificanti di Enrico Toti che va al fronte senza una gamba e tira la stampella al nemico, mi hanno fatto una capa tanta con la spedizione dei Mille, l’Italia una “di memorie, di lingua, di sangue e di cor”, e poi con le lotte contadine per la terra, in cui il nonno imbracciò forcone e roncola ed era pure stato uno degli eroici ragazzi del ’99 a cui il Piave mormorò, e Sacco e Vanzetti, i partigiani, Salvo D’Acquisto, I fratelli Cervi, Don Camillo e Peppone, Berlinguer… E basta così, perché tutto quello che è venuto dopo è da dimenticare.
Allora, lo so pure io che in questo minestrone c’è di tutto, dalla fedeltà al re alle rivendicazioni anarchiche fino all’avanspettacolo, e che si tratta di una zuppa fatta da ingredienti che non stanno insieme; però non si può negare che ci sia tanto, tanto idealismo, a fare da collante. Uno che è cresciuto così, ovviamente avrà non dico rispetto, ma venerazione per coloro che si sono battuti e sono morti per far sì che tutti noi potessimo votare ed esprimere liberamente le nostre opinioni; e allora come faccio a non votare?
Ma… m’ero fermato a Berlinguer, purtroppo; il che vuol dire che sono qualcosa come venticinque anni, e almeno una cinquantina di elezioni, che io vado a fare il mio sacro dovere civico senza entusiasmo alcuno. Di più, se penso agli ultimi anni, mi pare di essere parte di una platea numerosissima e distratta seduta davanti ad un palcoscenico con il sipario abbassato, dietro al quale si sentono alternativamente sussurri e frastuono, risate e gemiti di piacere da inconfessabili amplessi; capita ogni tanto di riconoscere una voce, o almeno sembra; ogni tanto esce un tizio da dietro al sipario che in quattro e quattr’otto racconta alla platea la sua versione di quello che succede là dietro e poi sparisce di nuovo; i tizi si alternano e il racconto non è mai lo stesso, neppure quando tocca di nuovo allo stesso tipo che è già uscito prima. Alla fine di ogni atto, si forniscono gli spettatori di carta e penna e gli si ingiunge di esprimere la propria preferenza per le performance dei diversi attori. Ecco, questo è diventato per me, oggi, votare.
E allora non me ne vogliano i Padri Costituenti, non me ne voglia il mio papà e tutta la galleria di miti e di eroi i cui mezzibusti mi guardano ora accigliati dai loro piedistalli, non me ne voglia la mia maestra delle elementari e nemmeno l’Uomo Ragno e Paperinik: continuo a venerarvi ragazzi, e dico davvero, anzi vi venero di più adesso che ho scoperto come sono fatti gli esseri umani, perché voi siete stati capaci di amarli lo stesso e di sacrificarvi per loro, ma io non ho la vostra stoffa; non sono capace di mettermi alla testa di una folla che assedi i Palazzi per chiedere Giustizia, e però mi sento troppo coglione a rimanere seduto in platea a riempire la mia schedina delle preferenze. Mi alzo, esco dal teatro, ecco cosa farò. Con una consapevolezza, però: quelli che stanno seduti in platea non sono migliori di quelli dietro al sipario abbassato, e anzi la quasi totalità di quegli spettatori il sipario non lo alzerebbe, se avesse la ventura di salire sul palcoscenico.

sabato 10 gennaio 2009

Lezioni di economia

Ho pensato che non è giusto, in un momento di tale drammaticità per il paese e il mondo intero, che chi sa qualcosa - anche pochissimo, come il GPZ - di economia, non aiuti i propri amici a districarsi in questo ginepraio e a capirci qualcosina di più. Mi arrischio, quindi, a impartire poche e sommarie (ma pregnanti) lezioni della cosiddetta scienza triste, avvalendomi di supporti didattici atti a mitigare l'osticità della materia. Quella che segue è la prima lezione: le mie previsioni.
Baci a tutti

GPZ











venerdì 9 gennaio 2009

Fuori luogo

Un paio di giorni prima di Natale, da Feltrinelli a Piazza Argentina, verso l’ora di chiusura, ad un certo punto vedo Gasparri. Sul momento ho pensato di essermi sbagliato: Gasparri in libreria? Si è perso, ha commentato Cristiana quando gliel’ho raccontato, oppure hai avuto le allucinazioni. Incedeva un po’ curvo, a scatti, con la capoccia in avanti e (giuro) la bocca semiaperta che si intravedeva la lingua, il che mi ha fatto dubitare, per un lungo momento, che si trattasse di Neri Marcorè che lo prendeva per i fondelli. Invece no, era proprio lui, in maglioncino a scacchi e pantalone di velluto, senza soprabito nonostante il freddo infame, come uno che è sceso da casa al volo per un’urgenza – tipo che s’era scordato le cipolle per il sugo e se n’era accorto quando i negozi stavano per chiudere – e qui sorge la domanda: un libro è addirittura un’urgenza per quest’uomo? Mica dovrò prendere atto di averlo sempre giudicato male, con la mia puzza sotto il naso di pseudointellettualoide di sinistra? Peccato non aver avuto la prontezza di riprendere la scena con il cellulare, su Youtube avrebbe spopolato, perché (giuro) Marcorè è fin troppo buono nel rappresentare questa autentica macchietta: lui di persona riesce molto peggio di come lo conciano gli imitatori. A fianco aveva una ragazzina bionda, avrà avuto un dodici anni, forse la figlia, che lo tampinava chiedendo qualche cosa; lui si è avvicinato a una commessa – fcufi, non è che me faprebbe di’ dove poffo trovare Cafonal? Ecco, adesso ho capito cosa ci facevi in libreria, mauri’…

martedì 6 gennaio 2009

Regressioni

Ed eccoci di nuovo qui, dopo parecchi giorni di latitanza. Dovrei forse raccontare della spedizione di capodanno in Cruccolandia, ma in fondo è stata più che altro una gita piacevole e rilassante, senza avventure o disavventure comiche che possano valere la pena di un post. Parliamo quindi d'altro.
E' accaduto sempre più spesso, di recente, che il GPZ si imbattesse nelle memorie della propria infanzia, che quasi sempre si sono manifestate sotto forma di libri. E' vero che da un po' di tempo sono diventato un assiduo frequentatore di quelle bancarelle dove, in mezzo a un catafascio di cartaccia, se uno cerca con pazienza può trovare delle autentiche rarità; deve essere che, nonostante il pelo sia grigio ormai da tempi immemori, sono entrato solo di recente in quella fascia di età in cui la nostalgia per il proprio affacciarsi al mondo diventa talmente acuta da farti quasi riassaporare fisicamente le sensazioni di allora. Di solito attraverso un film, un luogo, o più spesso un oggetto come un libro. Poco tempo fa ho parlato della favolosa antologia Salinari - Calvino, ritrovata su una bancarella a Porta Pia (), e dei magnifici racconti di fantascienza (non solo, ma quelli mi piacevano più di ogni altra cosa) che conteneva; stavolta andiamo direttamente alla fonte, perché Einaudi ha ripubblicato Le Meraviglie del Possibile, la mitica antologia della fantascienza curata da Fruttero e Solmi, uscita per la prima volta negli anni settanta; molti dei racconti di fantascienza più belli che abbia mai letto vengono da qui: ci sono Bradbury, Brown, Simac e qualche altra decina di grandi maestri, di quelli che scrivevano quando ancora si poteva pensare che su Marte ci fossero i residui di una civiltà antichissima, e su Venere creature acquatiche ghiotte di canne marcite e dotate, inaspettatamente, di intelligenza superiore. Roba anni quaranta, insomma. La cosa che più mi colpisce, rileggendoli adesso, è come questi racconti fossero pieni di ottimismo per le sorti dell'umanità: si parlava, è vero, anche di guerre galattiche e di delitti atroci (immaginare un genere umano finalmente avviato alla spiritualità evidentemente è troppo anche per la fantasia più sfrenata), ma tutto questo era ambientato comunque tra le stelle, su pianeti remoti che l'uomo sarebbe stato capace di raggiungere, sia pure per farci la guerra. Insomma, si dava quasi per scontato un progresso che ci avrebbe portato a superare la nostra stessa limitata essenza di bipedi di terra. Sentite cosa arriva a dire Sergio Solmi nell'introduzione: "[...]la letteratura fantascientifica potesse configurarsi come una sorta di preludio e di accompagnamento del superamento dei limiti terrestri e della conquista del cosmo da parte della specie umana, allo stesso modo in cui il romanzo cavalleresco aveva preceduto e accompagnato la grande espansione della civiltà europea al di là dei mari e nelle terre del nuovo mondo [...]. Insomma, ci credevano davvero che avremmo conquistato i cieli! Da bambino divoravo questa roba e immaginavo me stesso adulto imbarcato su un'astronave, o su una macchina del tempo, lanciato oltre le frontiere conosciute... Come immagino facciano tutti i bambini. Però, se li leggo con gli occhi dell'adulto che sono diventato, e soprattutto se confronto questi racconti con tutta quell'altra fantascienza che ho divorato da adolescente, negli anni ottanta, e poi da adulto, fino ad oggi, mi salta agli occhi la differenza di atmosfera: William Gibson, che pure ho amato molto, spesso non si schioda dalla Terra e magari immagina una storia alternativa, in cui Babbage ha realizzato nell'ottocento la sua macchina alle differenze e Marx ne è il programmatore, in uno scenario fantastorico forse più cupo di quello che si è realizzato veramente; passando ai fumetti, il Batman degli anni ottanta è dark, tormentato, oscuro (è quello che ha ispirato l'ultimo film della serie, Il Cavaliere Oscuro, per l'appunto), e così il suo alter ego Marvel, Daredevil. Niente ottimismo, niente stelle, niente viaggi nel tempo, se non creare scenari apocalittici. E dopo è stato sempre peggio, tanto che per poter dipingere mondi vergini e sbrigliare davvero la fantasia si è dovuti ricorrere al fantasy, che la realtà non la estrapola come la science fiction, ma la inventa di sana pianta. Sarà la mia memoria ad ingannarmi, ma mi pare proprio che la grande esplosione del fantasy (il novanta percento del quale non è imperdibile) risalga proprio agli anni ottanta, dopo i remoti lavori pionieristici (e insuperati) di Tolkien. Naturalmente, a fasi alterne, continuo a divorare sia la science fiction di serie A, sia i polpettoni fantasy di Terry Brooks, ma ogni tanto mi viene nostalgia, mi lascio andare alla regressione infantile e mi sparo un raccontino di quelli là... Le meraviglie del possibile, appunto: quando il meraviglioso veniva ancora ritenuto possibile.