venerdì 27 febbraio 2009

Ti va di correre?

Questo lo capiranno in pochi, perché a pochi è indirizzato. E' un regalo di benvenuto, e un saluto entusiasta a Luca e Marilena. Spero solo di essere stato all'altezza. Buona lettura!

- Ti va di correre fino a là? –
T., che se ne stava raggomitolato a contemplare il vasto mondo, sollevò appena il capino e ricambiò con uno sguardo poco convinto.
- Adesso?
- E quando, sennò? – ribatté spazientito l’altro – Quando gli altri si saranno presi tutto?
- T. si stirò, pigro. – Vedi, anch’io quando ho visto tutto quel bailamme mi sono incuriosito… Ma che ci sarà mai laggiù? Poi, però, ho pensato che non sarei mai arrivato in tempo in mezzo a tutto quel macello, mi avrebbero travolto, e alla fine sarei potuto arrivare solo… come dire?
– Per una botta di culo? – rispose l’altro, sempre più impaziente.
- Ecco, sì, io non mi sarei espresso in termini così poco urbani, ma insomma… E’ quello che intendevo.
- E allora cosa vuoi fare? Aspettare che inventino il teletrasporto?
T. guardò stupito l’importuno interlocutore: - ma che dici… ma non lo sai che l’entanglement…
- Lentangleche? – fu la risposta immediata del tipo smilzo, che cominciava a pentirsi amaramente di aver pensato di coinvolgere nel gioco un compagno così improbabile.
T. sospirò: ma come era possibile che la gente trovasse tanto normale sguazzare nell’ignoranza? Poi attaccò, con il tono paziente del professore che spiega un concetto elementare ad un alunno un po’ tardo di comprendonio: - l’entanglement… insomma, il teletrasporto (oddìo che sto dicendo, non è esatto, non è esatto… ma questo non capirà mai se non mi esprimo al suo livello)… Il teletrasporto è possibile, ma non in senso fisico… Quella che viene teleportata è l’informazione, ed inoltre la cosa avviene solo in termini di probabilità…
- Insomma – interruppe l’altro – funziona a casaccio, OK? Non sei mai sicuro che quello che spedisci arrivi poi come l’hai spedito… Magari tu pensi di inviare un mazzo di rose rosse e di là arriva un cesto di pesce marcio!
T. lo guardò stupefatto: - Beh, semplificando molto… è un po’ impreciso, dovremmo parlare di bit di informazione, non di rose e pesci, ma… sì, più o meno è così.
- Ecco, allora, visto che il tuo entl… entlgl…
- Entanglement.
- Eh, sì, quella roba lì! Visto che non funziona, ti va o no, per l’ultima volta, di alzare le tue chiappette e andarci in modo più convenzionale, laggiù?
T. era sempre più stupefatto: non era poi così scemo il tizio, più che altro sembrava divorato da una frenesia che gli impediva di mettere a punto ben chiari, lineari, i suoi stessi pensieri… Però cavoli, quant’era veloce! Di mente e di fisico: smilzo e sempre in moto, mentre parlavano non si era fermato un attimo, quasi correva sul posto, e andava avanti e indietro, gesticolava, faceva le smorfie, un vero furetto.
L’altro, da parte sua, aveva appiccicato su T. uno sguardo tra l’affascinato e il disgustato: si era pentito di averlo chiamato a giocare, questo pomposetto intellettualoide sedentario, e adesso rischiava di arrivare tardi, dietro tutti gli altri, che correvano come lepri ed erano già lontani, sempre più lontani… Ma non voleva essere scortese, ed esitava ad andarsene, lasciandolo lì da solo.
- Bene – riprese T., tirandosi su - direi che in questo hai senz’altro ragione: se vogliamo divertirci, dobbiamo andarci con le nostre forze, fin là.
Si stiracchiò un po’, si raddrizzò e, senza dire nient’altro, si avviò di buona lena.
Lo smilzo era sorpreso: non si aspettava più di riuscire a coinvolgerlo, e del resto ormai era tardi. Qualunque cosa ci fosse stata laggiù, per quando sarebbero arrivati non ci sarebbe stata più, travolta dalla folla urlante e scalciante che sciamava alla velocità del fulmine. E però la frenesia lo spingeva a correre lo stesso, mentre invece T. sembrava non volersi nemmeno spettinare – Ehi, ma hai visto quanto siamo indietro? Muoviti, dai! - E gli diede una pacca sulla testa.
- Ma che modi! Almeno dimmi come ti chiami, prima di prenderti certe confidenze! Non ci siamo neppure presentati!
- OK, io sono T. E adesso sbrigati.
- Piacere – disse T. con il fiatone – io mi chiamo T. Abbiamo la stessa iniziale! Sai qual è la probabilità che…
- No, non la so e non me ne frega niente. Spicciati, che quelli non ci lasciano neanche le briciole, sennò!
- Ma che poca lungimiranza! Davvero vuoi andare a confonderti con tutta quella marmaglia?
- Perché, hai qualche altra idea? Conosci un modo per arrivare prima di loro senza superarli?
- Mhm… Questa mi ricorda il paradosso del moto di Zenone… E la freccia scagliata e ferma…
- Ma basta! Ma ti vuoi dare un mossa! Ma chi me l’ha fatto fare…
- E calmati un momento! Ecco, adesso… Fermati un attimo. Sta a guardare…
T. lo smilzo stava per lasciarselo dietro, ormai definitivamente pentito di essersi messo a cavillare con quel culo di piombo, ma… Fece appena in tempo a fermarsi, prima di inciampare nel mucchio informe di teste ed estremità in furiosa agitazione appena davanti a lui. Era accaduto l’insperabile: la turba, vittima della sua stessa foga, si era come accartocciata su se stessa, l’inciampo di uno era diventato la rovina di tutti, e adesso quelle migliaia e migliaia si calpestavano, si colpivano, si ostacolavano a vicenda, nel tentativo di riprendere la corsa.
T. lo smilzo guardò T. il pacioso, che se la rideva e con tutta calma aggirava il mucchio selvaggio. Per un attimo provò quasi una fitta di invidia per quel modo così diverso di affrontare le cose, per quella calma olimpica, ma fu solo un momento: qualcuno stava districandosi dal groviglio dei migliaia, tipi decisi e veloci che da quella specie di melassa gelatinosa si distaccavano come bollicine e riprendevano la corsa. Ma T. il placido continuava imperturbabile per la sua strada, quasi senza accorgersi che lo stavano già riprendendo, e quasi superando. E allora no, così non va. Ok amico, va bene il ragionamento e l’entnglm e quello che vuoi tu, la tua parte l’hai fatta egregiamente, ma adesso solo una cosa serve: azione!
E prima di finire il pensiero letteralmente decollò, manco avesse acceso i retrorazzi, affiancò il T. lento e lo afferrò per la vita sottile – nuota! E quell’altro non fece in tempo a capire cosa l’avesse travolto, in quale vorticoso tunnel fosse precipitato, quale piega dello spazio-tempo lo stesse inghiottendo… Entanglement? Può essere che ci si senta così? E disperatamente nuotava, nuotava per non perdere il passo con quell’altro T. che sempre tenendolo per la vita gli saettava ora a destra ora a sinistra, sempre davanti però, mentre indietro restavano tutti gli altri, manco stessero fermi, e invece si agitavano, eccome se si agitavano! Ma senza speranza, non potevano competere con il fulmine, con il Grande Fotone in persona, erano inesorabilmente destinati a scomparire dietro, in un orizzonte lontano lontano di possibilità che non si sarebbero avverate. Un’altra volta, forse: adesso tocca a T&T.
Non seppe mai, il T. lento, quanto tempo avesse trascorso alla velocità della luce… e lui per primo sapeva che era una contraddizione parlare di tempo in una situazione in cui, per definizione, il tempo è fermo. L’altro T., invece, proprio non se ne preoccupò, e si curò solo di accelerare, accelerare ancora, per fermarsi solo al cospetto della luce che, ancora remota, aveva tuttavia messo in moto tutto quel pandemonio.
Restarono in silenzio, attoniti e quasi spauriti: la sfera era enorme, solo a fatica se ne intuiva la forma, tanto i suoi confini si perdevano oltre lo sguardo, che non riusciva a contenerla. Pulsava sospesa nel vuoto, emettendo una luminescenza calda che sembrava fuoriuscire da una fessura minuscola proprio lì, davanti a loro, diffondendo un tepore che sapeva di intimità e di dolcezza, una promessa di altri mondi, di un universo nuovo, di spiagge sconosciute, di orizzonti vasti e solenni.
Per la prima volta in vita sua, T. il placido non trovò parole per esprimere ciò che aveva davanti. Persino i pensieri sembravano inadeguati al cospetto di quella magia grande e terribile, solo confuse emozioni gli erano rimaste dentro.
Era forse Dio quella cosa? Il solo pensiero bastò a tramortirlo, a renderlo del tutto incapace di discernimento, ormai completamente assente a se stesso.
E intanto, dietro, lontano lontano, si cominciava ad intravedere la sagoma di qualche raro nuotatore attardato, ombre pietosamente arrancanti e ormai sfinite, eppure ancora determinate, che sembravano trarre rinnovato vigore dalla vista della divinità.
Fu allora che T. il Veloce, ammiccando verso il Lento, lo riscosse dalla contemplazione mistica e, indicando con la codina la fessura – di’ un po’ – gli disse – ti va di correre fin là?

martedì 24 febbraio 2009

Watchmen

Ma l’avranno fatto apposta?
Watchmen, dico: il film, quello tratto dalla graphic novel di Alan Moore e Dave Gibbons.

Con un po’ di buona volontà, il concetto non è troppo diverso da quello delle ronde: padan watchmen, suona bene. E io mi dovrò ricredere, ad aver amato quest’opera, la prima a mettere in scena supereroi senza superpoteri (tranne uno) e a mostrarli per quello che sarebbero se esistessero davvero, e cioè bischeri in costume (e qualcuno pure con la panza). Boh… Io nel dubbio il film me lo andrò a vedere lo stesso, però certo, il pensiero che sul più bello mi sovverrà che il tizio o la tizia che si agita sullo schermo è un commendator Brambilla mascherato, o una casalinga di Voghera… Beh, un po’ mi rovinerà il divertimento, questo mi tocca dirlo.
Adesso che gli hanno dato la licenza di mascherarsi, che combineranno i watchmen di casa nostra? Oddio, fino a mo’ non è che fossero proprio sobri nel vestire, guardate qua come si sono conciati questi:
Certo deve essere forte la scarica di adrenalina da supereroismo, se onesti operai, ragiunatt, baristi, arrivano ad esporsi al ridicolo in questo modo. In verde, poi: come se qualcuno potesse mai essere tanto coglione da confonderli con il mitico Green Lantern.
Non lo so se il vostro schermo è in grado di farvi vedere insieme le due immagini qui sopra, se non ce la fa forse è meglio, perché il paragone è davvero impietoso!
Comunque, adesso che la mascherata è stata sdoganata e il carnevale esteso a tutto l’anno, ci potremo divertire: finalmente avremo tra noi i GIUSTIZIERI MASCHERATI, proprio quelli dei fumetti che leggevamo da ragazzini! Sai che gusto, vedere l’UOMO RAGNO, IL MITICO THOR, I FANTASTICI QUATTRO e tutta la compagnia volante, scorrazzare tra Cesano Maderno e Casalpusterlengo, roba che se uno ha un po' di culo facile pure che li becca all'autogrill, quando si ferma a pisciare in autostrada!
Certo, questi non è che siano proprio uguali uguali: assomigliano un po’ di più ai watchmen di Moore e Gibbons, per l’appunto, con le loro panze e le loro sfighe. Anzi, a me un campionario dei futuri eroi mascherati (e non) è già venuto in mente. Ve li presento.

Superciuk, l’acerrimo nemico di Alan Ford con la micidiale fiatata alcolica, che ruba ai poveri per dare ai ricchi. Ha il pregio di essere ideologicamente molto vicino agli ispiratori politici del rondismo, e il difetto di essere del tutto indistinguibile dai rumeni ubriachi da cui i prodi watchmen ci vorrebbero liberare. Riuscirà ad affermarsi? Le sue chance dipendono tutte dalla velocità degli altri watchmen: se lo acchiappano lo bruciano, sicuro, e con tutto quell’alcol in corpo ahiahiahi… Mi sa che il nostro non avrà scampo. Primo supereroe vittima, è il caso di dirlo, di fuoco amico.

Willie: qui lo vediamo in un raro momento di meritato relax, sulle spiagge adriatiche, intento però a sorvegliare una spiaggia (i watchmen sono sempre al lavoro, anche quando riposano, da buoni figli della terra delle fabbrichètte, oltre che di ‘ndrocchia). Incombe sulle fighette verdi un'orda di dotatissimi (e assai appetiti) vu’ cumprà, e al nostro amico gli tocca fare gli straordinari, lui che s'è dato la missione di non far più crescer corna sulle crape padane, oggi che sono state dismesse quelle d'ordinanza, in dotazione con gli elmi celtici (e con gli idraulici di Caltanissetta). L’evidente espressione sorpresa è dovuta alla battuta estremamente originale del collega ritratto con lui, il Cazzone Invisibile, che gli sta sussurrando all’orecchio (invisibile) “che cazzo stai dicendo, Willie?”.

E infine, a chiudere la carrellata, non potevamo avere che lui, il magnifico, il superbo, il magico, l’Alto Involuzionista, il capo supremo di tutti i watchmen passati, presenti e futuri, lo stesso che con una sola battuta e i suoi superpoteri trasformò il suo mentore e creatore Gianfranco Miglio (oh yes, chi era costui? Non era Carneade…) in una scoreggia nello spazio…quello che nella sua immensità non può essere definito, e che infatti non definiamo, tanto l’immagine parla da sola:

Notate il gesto, la magia che si sprigiona dalle sue mani, le mani di un demiurgo, di uno che tutto tocca e tutto trasforma: in merda, dite? Non ho sentito...
Ecco, questi sono i miti che animeranno il nostro prossimo futuro: altro che Grande Fratello, altro che tronisti… E la De Filippi? Già, la De Filippi… Oh, ma l’avete visto che ore sono? E mica pretenderete che vi dico tutto stasera! Ma lo sapete a che ora me devo arzà domanimattina? E la Defilippi volete sapè, la Defilippi, la Defilippi, la Defilippi …

domenica 22 febbraio 2009

Se le cassandre siamo noi

Ieri io e la mia cucciolotta eravamo a piazza Farnese, a Roma, alla manifestazione contro la legge attualmente in discussione in Parlamento e che, se approvata, ci esproprierebbe della nostra libertà ultima e più sacra: poter decidere in che modo lasciare questo mondo.
Chi non c'era, se vuole può guardare e ascoltare gli interventi sul sito di Radio radicale: http://www.radioradicale.it/scheda/273316/manifestazione-si-al-testamento-biologico-no-alla-tortura-di-stato.
Dicono che eravamo tanti, a me non è sembrato: la posta in palio è talmente alta che in piazza avrebbe dovuto esserci mezza Italia, e invece c’era solo una piazza, appunto, e piccolina, benché piena.
Bella era la gente, e molti oratori. Appassionata la Ravera, e acutissima nel giocare sul concetto di anima che guai a chi ce l’ha, perché almeno i cani – che secondo i preti non ce l’hanno – sono liberi di andarsene quando non ce la fanno più, mentre noi no, noi avendo l’anima non ci apparteniamo: apparteniamo a Moloch il crudele, che sia il Dio in terra di Hobbes che è lo stato o il Dio degli eserciti veterotestamentario, che nell’indifferenza dei più ha sfrattato la pietas che fu di Cristo e si è ripreso il posto che duemila anni fa gli era stato tolto. Di pietas ha parlato la Ravera: che amore è mai questo, che inchioda le persone alla croce delle loro sofferenze senza speranza e vuole murarle vive dentro il proprio corpo devastato, senza possibilità di vedere, sentire, parlare, comunicare in alcun modo?

E indimenticabile, commovente, immenso, Camilleri: - vi parla un vecchio di ottantatre anni – ha attaccato con accento graffiante e roco di siciliano – uno che ha vissuto quattro quinti della sua vita espropriato della libertà: soldato nell’esercito fascista, e poi ostaggio di volta in volta dell’ipocrisia democristiana, degli anni di piombo e infine della dittatura televisiva di Berlusconi. E questo vecchio – proseguiva così, con un piglio insolente e un umorismo al vetriolo di uno più giovane di me e di voi – questo vecchio che ama questo paese e soffre nel vederlo devastato dall’ottundimento delle menti, dalla barbarie trionfante dei linciaggi e della voglia di pogrom, dalla volgarità debordante dei grandi fratelli e delle isole dei famosi, dall’abusivismo edilizio che ne ha deturpato i paesaggi prima meravigliosi, dall’illegalità eletta a sistema, dalla pusillanimità; questo vecchio che ormai non ha più nulla da chiedere alla vita, ha ancora però qualcosa da dare, e vuole spenderla qui, perché quando verrà – presto – il suo momento di andare e sarà solo o con sé stesso o con Dio, se c’è, allora non vorrà salutare questo mondo e il suo paese con l’angoscia di aver lasciato ai suoi nipoti lo sfregio di essere stati espropriati della libertà più sacra per un essere umano, che è quella di decidere della propria vita e viene prima di tutti i diritti.

Che c’è da dire di più? Si è commosso lui e ha commosso tutta la piazza, nel salire e poi lasciare il palco portando con sé la fierezza della propria vecchiaia, sostenuto a braccetto da un accompagnatore ma a schiena diritta, con sguardo limpido.
Una cosa mi ha colpito più delle altre, anche se forse banale: il sottolineare l’amore per questo paese.
Ci rappresentano spesso, e lo stesso stanno facendo in queste ore con quella piazza gremita, come il popolo dei malcontenti, gli odiatori di professione, i gufi, le cassandre malevole; adesso, addirittura, come il popolo della morte. In gran parte è malafede, si sa; ma chi ci crede davvero, come fa a essere talmente ottuso da non capire che a muovere la maggior parte di chi scende in quelle piazze è semmai un eccesso di amore per questo paese, un amore dolente per quello che ha saputo essere, per l’arte e la cultura e la bellezza che ha saputo creare e che ora ha del tutto dimenticato, fino a sfregiare e imbruttire se stesso, a diventare lo zimbello dei paesi civili? In quale altro posto ci sono tutte insieme le ronde antistranieri, gli assalti di popolo ai campi Rom, i tentativi di linciaggio, i roghi umani dei senzatetto, un premier inquisito e condannato idolatrato da più del sessanta percento del paese, l’odio per lo stato- questo sì, c’è, e non siamo noi quegli odiatori -, due milioni di costruzioni abusive, un terzo del territorio in mano alla criminalità organizzata, cento miliardi di evasione fiscale; in quale altro posto?
E saremmo noi le cassandre? Noi, semplicemente perché questo non lo sopportiamo e lo denunciamo in piazza?
E’ davvero un grande, Camilleri: la vita ce l’ha più alle spalle che davanti, ma nella sua amarezza sfodera una speranza che, confesso, a me purtroppo appartiene sempre meno, e devo lottare ogni giorno perché non si spenga del tutto, perché le armi comunque non le voglio cedere, quand'anche non ci fosse più alcuna possibilità di redenzione. Quando se ne è andato, a passettini brevi ma decisi, sempre aggrappato al braccio del suo accompagnatore, non ho trovato di meglio che urlargli “bravo!”, perché l’emozione mi aveva annodato la lingua e i pensieri. Avrei voluto potergli stringere la mano e dirgli lì, sul palco, davanti a tutti, - Grazie, Maestro.

martedì 17 febbraio 2009

Filosofia dell'Ultrauomo

Poi dice perché uno si appassiona alla filosofia: prendete un ragazzino di 13/14 anni, qual ero io quando lessi questo libro (infelicissimo titolo italiano: Il segreto dell'Ultrauomo, da cui il titolo di questo post); abbindolatelo con una trama golosissima, di quelle che non ti danno pace finché non sai come-va-a-finire, che è l'unica cosa che ti interessa a quell'età; e infine infarcitegli il percorso (accidentato) lungo cui lui vorrebbe correre alla fine della storia con una serie di citazioni e riflessioni che non potrà capire, data l'età, ma che si pianteranno nel suo cervello per tutti gli anni a venire. Poi il ragazzino crescerà, andrà al liceo, incontrerà poeti, romanzieri, filosofi e ogni tanto gli tornerà in mente quel particolare passo in cui si diceva che... E si accenderà una lampadina, una sinapsi brillerà, un collegamento verrà creato, fino a costruire una vasta rete che legherà le isole che quel libro ormai dimenticato aveva disseminato nella memoria.
Morale: del libro non mi ricordo praticamente niente, se non che c'era un tizio che poteva cambiare forma quando voleva e andare nello spazio, in aria o sotto il mare e, naturalmente, salvava il mondo; le riflessioni sulla società, sull'universo, sulla natura della coscienza e su quant'altro infiltrava proditoriamente la trama, peggio che andar di notte. Ma tutto ciò che da quegli inserti traditori è scaturito in termini di curiosità prima, e poi di apprendimento, e infine di cultura personale, quello sì, sarà sempre con me. Del resto, qualcuno disse che "quando tutto si è imparato e tutto si è dimenticato, quello che resta è la cultura". Tutto ho dimenticato, anche chi disse questa cosa. Ma aveva ragione.

lunedì 16 febbraio 2009

Duelli nel fango

Epifani propone di tassare i redditi oltre i 150.000 euro per trovare le risorse necessarie a sostenere gli interventi contro la crisi. Confindustria (e non solo), spalleggiata da parecchi commentatori dal sopracciglio inarcato, oppone un rifiuto indignato (o spaventato?).
Si fronteggiano due menzogne di segno opposto.
La prima è di Epifani: tassare quei redditi sarebbe un segnale di equità e quindi un atto etico quasi doveroso, se fossimo un paese civile e solidale; ma lui non dice questo, dice che con quei soldi si possono attuare interventi anticrisi. Basta un’occhiata alle tabelle ISTAT della distribuzione dei redditi per mettersi a ridere, visto che a guadagnare (o meglio, a dichiarare) quella cifra è un manipolo talmente sparuto che sarebbe eroico, se non sorgesse subito il sospetto maligno che se dichiarano centocinquanta è solo perché evadono mille. Sono talmente pochi che nemmeno se li espropriassimo anche delle mutande firmate riusciremmo a rendere tangibile il loro contributo.
E’ la solita strategia populista: stavolta è il turno di Epifani, di inseguire un facile consenso a costo zero (tanto, quei tizi non saranno certo iscritti della CGIL, e nel caso improbabilissimo che lo fossero torna a valere il discorso che sono quattro gatti, cosa che Guglielmo sa benissimo).
La seconda menzogna arriva in risposta, da parte dell’esercito nascosto dei tanti Mazzarò che hanno da difendere la roba, e che accampano scuse surreali come un’ulteriore depressione dei consumi, in caso gli toccasse sottoporsi a salasso fiscale. Esercito nascosto, sì, perché il manipolo sparuto di cui sopra è ovviamente solo l’avanguardia, che fa da specchietto per le allodole mentre gli altri se ne stanno allineati e coperti, e magari la roba la portano all’estero.
Calo dei consumi: magari di caviale e di aragoste, ma mi sa che non è tanto in quel segmento che si concentra il lavoro degli italiani.
Insomma, è il solito vecchio egoismo muffito degli avari di ogni epoca e di ogni luogo. Avari che da noi sono quasi sempre anche ladri.
E' un gioco a somma zero: uno propone di mazziare qualcuno che sa benissimo non potrà mai essere mazziato, da quando non esiste più una sinistra degna di questo nome; l’altro mugugna infastidito e non vede l’ora che la rabbia si smonti e le urla si spengano, per scansare la ribalta e tornarsene nell’ombra ad aspettare che la bufera sia passata.
Ma è difficile che in questo modo la bufera possa passare davvero.

domenica 15 febbraio 2009

Immigrazione e sicurezza

L’immigrato stava lì, per terra, ubriaco, gridando nella sua incomprensibile lingua. La gente guardava, ma da lontano, perché la paura fa più della curiosità. Dalla volante della polizia scesero due agenti. Uno, che somigliava un po’ al tipo per terra, si avvicinò e gli rivolse alcune parole, il cui suono parve avere un immediato potere calmante e rassicurante. Poi l’immigrato rispose. Parlavano nella stessa lingua. Come mai non ci pensa nessuno? Sarebbe una soluzione a parte della microcriminalità legata ai problemi dell’immigrazione. Quando un essere vivente - vale dunque anche per gli umani - si sente in pericolo, può reagire attaccando. Molto spesso le persone che arrivano qui da noi da Paesi lontani, lo fanno attraverso difficoltà e pericoli che noi non riusciamo neppure ad immaginare. Sono anche molto spaventati. L’incomprensione della lingua, delle regole e delle abitudini di un posto dove si è sognata una vita migliore ma che appare realisticamente ostile, possono avere come esito comportamenti del tutto inaccettabili. Negli Stati Uniti, che nel nostro Paese di solito vengono citati ad esempio e modello solo per ciò che fa comodo ad alcuni (prevalentemente dunque riguardo agli aspetti deteriori), tale soluzione venne intelligentemente adottata già prima dell’alba del secolo scorso, quando nelle grandi città il flusso d’immigrazione era imponente. L’integrazione passò dunque anche attraverso il corpo di polizia, in cui il famoso Giuseppe “Joe” Petrosino fu il primo di tanti. I poliziotti erano allora per lo più di origine irlandese ed il problema dell’impossibilità di comunicare con le moltitudini di emigranti provenienti dall’Italia – gente povera, totalmente spaesata, costretta a lottare per sopravvivere ammassata nei ghetti in condizioni disumane e che nutriva un’atavica sfiducia nell’autorità – moltiplicava i problemi di ordine pubblico favorendo inoltre la radicazione delle organizzazioni criminali. Ma da Petrosino in poi, la polizia ebbe una potente arma in più, poiché aveva iniziato a parlare la stessa lingua e a comprendere abilmente la mentalità di quelle organizzazioni che avevano preso il controllo di parte del territorio. L’immigrazione è un dato di fatto, inutile contestarla. Molto più maturo adeguarsi.

giovedì 12 febbraio 2009

Anno zero

Lo sto seguendo, proprio mentre scrivo, e non lo faccio mai. Stasera il circo è lo stesso di sempre, peggio se possibile: oltre al'ubiquo Bersani, il buon Michele ci rifila pure Formigoni e ci infligge una recidiva della Pivetti, da cui pensavo che il paese fosse finalmente guarito – almeno da lei! – dopo averla vista traslocare dagli studi della Camera, di cui fu presidente, a quelli di Italia 1, in coabitazione con Platinette.
Al centro c’è Eluana - e certo che è titolata, l’Irene, ad esprimersi su alte questioni di bioetica; anche dopo morta, questa ragazza viene pesantemente strattonata per l’arruolamento coatto in movimenti di cui non credo abbia avuto il tempo di interessarsi, durante la sua breve vita.
Formigoni, di fronte a uno che reclama a voce alta il proprio diritto di scelta, afferma solenne e convinto che “Eluana il suo diritto di scelta non l’ha potuto esercitare”, sovvertendo in un colpo solo la realtà, la storia, una sentenza della magistratura e il puro e semplice buon senso.
Poi, incalzato sul testo approvato in Parlamento, che obbliga tutti a sottostare all’alimentazione e all’idratazione forzata in spregio a qualsiasi cosa uno possa aver scritto o detto quando era capace di farlo, dice che no, non è così, ma quando mai… Non è forzata l’alimentazione, perché dal testo l’hanno tolto quell’aggettivo, e quindi si tratta ora di semplice cura, che a nessuno si può rifiutare… Proprio “rifiutare” dice il bel Roberto, trascurando che per rifiutare qualcosa a qualcuno occorre che quel qualcuno l'abbia prima chiesto, cosa che Eluana Englaro non ha fatto; anzi, aveva semmai chiesto il contrario, come le indagini hanno accertato.
Ma cosa abbiamo mai fatto di male per meritarci di essere trattati da imbecilli in questo modo? O sarà mica che siamo imbecilli davvero, visto il mucchio impressionante di gente che non vede l’ora di bersi papocchi come questo? Ma li avete visti i sondaggi sul caso Englaro? Fino a pochi giorni fa, 80 percento a favore del padre; parla il nano alfa e il paese si spacca: 50 e 50. Come si fa a dare la patente di maturità democratica a un paese in cui il 30 percento della popolazione adulta autocondiziona il proprio cervello alla sintonia perenne con un eversore bugiardo e ridicolo?
E infine dunque, come al solito, si usano le parole per stendere una bella cortina di fumo intorno alla sostanza dei fatti; la sostanza essendo che, se uno chiede di essere lasciato morire in pace, la riconversione di quella che è una terapia in semplice sostentamento impedirà che le sue volontà possano essere eseguite.
Eppure sarebbe così facile sciogliere il nodo: cos’è questa ipocrisia della sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, che dà agio ai vampiri della vita di sproloquiare su sofferenze e torture inumane? Com’è che certe tecniche – e anche di più cruente – vengono invocate per gente in perfetta salute, benché criminale, e non si possono invece usare su chi le accoglierebbe come una benedizione? Gli americani giurano e spergiurano che le loro iniezioni letali non fanno in alcun modo soffrire i loro condannati a morte, che pure – loro sì! - sono vivi, e di soffrire sono in grado: e allora perché non usiamo quelle?
Torniamo a chiamare le cose con il loro nome: qui non si tratta solo di lasciar morire, si tratta anche di dare una mano a farlo, quando il corso delle cose sia stato artifcialmente sospeso; nessuna legge sarà mai soddisfacente, se non prevederà anche questa fattispecie che ipocritamente non viene neppure nominata.
Così invece, grazie a un imbroglio verbale, quelli di noi (come sarebbe bello se non dovesse mai accadere a nessuno!) che un giorno dovessero trovarsi in quella terribile condizione, dovranno sorbirsi per intero la propria atroce agonia a tempo indeterminato. In questo paese, ormai, a tempo determinato ci sono solo i contratti di lavoro; invece le condanne sono a vita, e si fa pure in modo che la vita sia assai lunga.

domenica 8 febbraio 2009

Ciò di cui non si può parlare

Su Eluana Englaro mi mancano le parole, l’ho già detto. Tutto suona o troppo banale o troppo grossolano, fuori misura rispetto alla smisuratezza di questa tragedia, per un verso o per l’altro: troppo flebile, o troppo violento. Quello che si può fare è salire sulle spalle dei giganti, guardare la vicenda di lassù e usare parole che non sono nostre; le prendiamo in prestito da loro, dai giganti, anche se poi la conclusione resta la stessa: di fronte all’inaudito il silenzio soltanto è degno di rappresentazione.
Quelli che si riempiono la bocca di diritto naturale e pratiche contro natura come se stessero parlando di qualcosa di oggettivo, che esiste davvero al di là e al di fuori di noi e a cui noi dovremmo inchinarci, sono stati confutati a priori da almeno due secoli di pensiero. Che non c’è bisogno di riassumere, perché il problema non è nostro ma loro, e si chiama ignoranza; o malafede, come nel caso del papa, che certe cose le conosce – o almeno dice -, ma consapevolmente le aggira e le ignora.
Avessimo tra noi un Socrate, smonterebbe questa gente con le loro stesse parole: premettendo, lui per primo, di non sapere, chiederebbe loro di argomentare in favore della verità che invece pretendono di possedere, e li coglierebbe in fallo ad ogni contraddizione, ad ogni concetto vuoto. Del resto di concetti vuoti, cioè non definiti, accettati apoditticamente in nome del “buon senso” o della “sensibilità popolare”, della “filosofia naturale” e di chissà cos’altro sono pieni i discorsi di questo “popolo della vita” a cui la vita umana sta a cuore, secondo la felice e amarissima espressione di Ellekappa, solo “prima della nascita e dopo la morte”: potremmo cominciare proprio dal concetto di Dio, che viene piazzato lì come un monolito con la pretesa che la sua esistenza e la sua voglia di impicciarsi dei fatti nostri siano qualcosa di acclarato ed evidente a tutti, quando per me e per tanta altra gente questa evidenza proprio non c’è.
E qui cade bene una citazione dal Tractatus logicus – philosophicus di Wittgenstein, un po’ lunghetta ma del tutto appropriata, che sembra riprendere proprio il metodo socratico e la cui conclusione andrebbe secondo me presa alla lettera: […] ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro - egli non avrebbe il senso che gli insegniamo filosofia – eppure esso sarebbe l’unico rigorosamente corretto.
Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse (egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito).
Egli deve superare queste proposizioni: allora vede rettamente il mondo.
Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

giovedì 5 febbraio 2009

Quello che uno non dice

Sulla sorte molto triste della povera Eluana Englaro non avevo mai scritto nulla: se ne parla talmente e ne parla talmente tanta gente che tutto questo clamore mi sembra offensivo. Fossi io un suo congiunto, andrei in bestia al pensiero che cani e porci si sentono in diritto di dire quello che vogliono su una vicenda così tragica.

Ne scrivo solo perché il decreto di legge che il governo si appresta ad emanare per impedire in extremis l’adempimento di quella che – è provato – sarebbe stata la volontà di questa ragazza (morire in pace) rivela una cultura talmente violenta e prepotente da mettermi addosso una paura folle. Paura che – e davvero tremo a dirlo, e questo è un altro dei motivi per cui non avevo mai toccato questo caso -, nella malauguratissima ipotesi che toccasse un giorno proprio a me, o a una persona a me cara, quella tragica situazione, non mi sarebbe consentito andare e lasciar andare.

Provate a pensare: morte de facto, se va bene; o, se invece permane anche solo un fioco barlume di coscienza, l’inferno di un buio in cui risuona solo il proprio pensiero disperato, senza che mai possa penetrarvi un’immagine, un suono, una parola, una carezza. Un cervello a bagno in una vasca con le pareti schermate di nero, per tutta una vita. Riuscite a immaginare qualcosa di più orribile?

Una mia compagna di scuola sta così da ventitré anni: era una ragazza molto bella, aveva un marito e una bambina. Un ictus l’ha conciata peggio di Eluana, perché lei è cosciente. Cosciente ma cieca, sorda, muta e incapace anche di aprire gli occhi. Come abbiano stabilito che è cosciente non lo so, ma l’hanno stabilito. Quando penso a lei mi si aggroviglia lo stomaco. Al posto suo vorrei poter morire.

Allora, dato che da noi il testamento biologico è un’utopia e tutto quello che non dici potrà un giorno essere usato contro di te, io preferisco dire, pur con addosso la paura e i sudori freddi: se dovesse accadermi, lasciatemi andare. E se non riuscissi ad andarmene da solo, datemi una spinta. Ecco, alla fine l’ho detto. E’ questo il mio testamento biologico, scritto su questo blog. Ovviamente faccio tutti gli scongiuri del mondo perché non debba mai essere applicato, ma se fosse: provate a dire, carissimi ipocriti, che la volontà del soggetto non era stata accertata a dovere, come avete fatto per Eluana; io lo scrivo qui, dove può essere da me stesso cancellato. Se non lo cancello, vuol dire una sola cosa: ho espresso la mia volontà oggi, in piena coscienza e lucidità, e non ci ho mai ripensato.