mercoledì 29 ottobre 2008

I numeri che non abbiamo

Oggi, senza andare troppo sul filosofico, parliamo di numeri.
L’ignoranza – spesso rivendicata con orgoglio - di noi italiani in questa materia è un fenomeno antico, in cui hanno parecchie responsabilità Croce e Gentile.
Restando su un piano più terra terra, prendiamo la manifestazione del PD a Roma, sabato scorso: erano due milioni, duecentomila o diecimila? In fondo non dovrebbe essere difficile contarli: si prende qualche foto da Google earth, si scelgono un po’ di riquadri campione, si contano le capocce in quei riquadri e si moltiplica la media delle capocce per il numero di riquadri. In realtà è leggermente più complicato, ma vi assicuro che uno statistico come il GPZ vi saprebbe fare il calcolo aggiungendo, ovviamente, anche il margine di errore.
Invece qui ci piace parlare di milioni, a prescindere: erano milioni (sempre autocertificati, ovviamente) quelli scesi in piazza per il nano alfa due anni fa, e quindi non possono non essere milioni questi qui, pena l’etichetta di fiasco. Io propendo per le centinaia di migliaia, ma non ditelo a Veltroni.
In questo nostro stranissimo paese, poi, ci piace tanto erigere ardite costruzioni intellettuali senza un minimo di riscontro con la realtà, e quindi – ancora! – con i numeri. Si preferisce ragionare sui principi, come se questi dovessero essere necessariamente in contraddizione con la dimensione dei fenomeni; e se qualcuno prova a riportare l’intellettuale di turno sui binari della realtà, quello come minimo gli dà del “ragioniere”, sottintendendo meschinità e ristrettezza di vedute. Magari ne avessimo avuti, di ragionieri oculati, al posto dei condottieri di (s)ventura che ci siamo sempre ritrovati...
Si è fatta una guerra di religione durata due o tre anni sul famoso “scalone” della riforma pensionistica di Maroni, che riguardava lo zero virgola spiccioli dei pensionandi italiani; il nano beta Brunetta spara ogni giorno le cifre più fantasiose sul calo dell’assenteismo nel pubblico impiego senza che nessuno gli chieda dove li ha presi quei numeri, chi li certifica; e sull’entità di questo fenomeno, che a leggere le statistiche – quelle vere - è di poco superiore a quello del settore privato, ha costruito una fortuna politica. Basata peraltro sul rancore che molti italiani provano verso molti altri, invece che su argomenti razionali.
Il polverone sollevato da queste e altre battaglie insensate ha oscurato temi ben più pesanti che interessavano tutti. Qualche esempio? Il rinnovo del famigerato CIP6, che è il provvedimento con il quale noi cittadini (tutti) finanziamo con le nostre tasse inceneritori di rifiuti e raffinerie di petrolio quali produttori di “energie rinnovabili”; il finanziamento di 50 milioni di euro regalato dal Berlusca I ad una sola università privata, proprio mentre si affossavano quelle statali; e tante altre cose.
Rileggo ora quello che ho scritto, e mi rendo conto che è noioso; sì, alla fine mi annoio pure io a parlare di queste cose, nonostante siano il mio mestiere: è perché sono sì un mezzo matematico, ma prima ancora sono un italiano.
Le responsabilità, si diceva prima, sono antiche: Benedetto Croce teneva in supremo spregio “gli ingegni minuti” dei matematici, e quando il matematico Federico Enriques organizzò un’iniziativa di divulgazione – si era negli anni dieci del secolo scorso, davvero in anticipo sui tempi – si beccò dal pater della cultura italiana di allora una raffica di elegantissimi insulti; Giovanni Gentile, l’altro peso massimo della filosofia italiana di quell’epoca, proseguì su questa strada, e quando il Dux gli commissionò la riforma della scuola separò nettamente il percorso scientifico da quello umanistico. Come se la cultura potesse essere scissa; in realtà, il retropensiero era lo stesso di Croce: un percorso nobile, che passa attraverso lo studio delle arti e della letteratura, e uno tecnico, di bassa cucina, destinato agli “ingegni minuti”. In queste condizioni, l’aver sfornato economisti matematici come Pareto, fisici da Nobel come quelli del gruppo di via Panisperna e matematici come Ricci Curbastro o Levi Civita, senza le cui equazioni la teoria di Einstein forse non sarebbe nata, è qualcosa che non si spiega; sono le felici eccezioni di cui il nostro paese è sempre stato capace e di cui poi ci vantiamo pure, dopo averne tenacemente ostacolato la crescita. E sono sicuro che la maggior parte degli italiani non conosce quasi nessuno dei nomi che ho appena citato.
Io però credo che la cultura e le capacità di un paese si misurino sulla media, non sulle punte di eccellenza: a che serve avere un pugno di scienziati, se tutti gli altri sono semianalfabeti e a quei pochi scienziati guardano pure storto, perché non capiscono la loro opera e credono che stiano semplicemente sprecando risorse?
Questo disconoscimento della cultura quantitativa, dei numeri, secondo me spiega un sacco di cose; la proverbiale disorganizzazione italiana, per esempio: come si fa a programmare se – a priori – si ha orrore per le tabelle numeriche che riassumono i fenomeni che si devono dominare? Che siano le liste d’attesa degli ospedali o la frequenza delle corse dei mezzi pubblici. Se i nostri manager sono delle pippe lo dobbiamo anche a questo, non solo al familismo amorale che li ha collocati in posti di comando anziché a spazzare le strade.
E - altro danno enorme - quei pochi che, in questo paese, amano davvero la cultura, spesso non sanno neppure di perdersi metà del piacere: identificano la cultura con la letteratura, con le arti, con la filosofia quando va bene, e si fermano davanti alle scienze matematiche come cavalli recalcitranti davanti a un ostacolo; così non sapranno mai che l’eleganza di una dimostrazione matematica è la stessa di una scultura classica, che la febbre creativa che traspare dall’opera di un fisico teorico non ha niente di diverso dal genio malato di un van Gogh. E qui mi fermo, sennò la facciamo troppo lunga. Io non sono filoamericano, anzi, e la cultura anglosassone, presa in blocco, mi ispira un rapporto di amore permeato di diffidenza; però, credetemi, loro hanno davvero un’idea completa di che cosa sia la cultura, e noi no. E si vede, purtroppo; si vede molto.

domenica 26 ottobre 2008

Napoli salta la corda

Qualche giorno fa Nadia si è sposata, e ora sta partendo per il Brasile. Non sa cosa farà, laggiù, ma Nadia vive così: non si prepara la strada in anticipo, va e scopre sul posto cosa può offrirle il luogo, e che cosa al luogo può dare lei.
Nadia ve la faccio conoscere attraverso le parole di Sara, che con questo testo ha vinto l'anno scorso il premio Napoli (http://www.premionapoli.it). Nadia è mia cugina, Sara una delle mie amiche più care.

Napoli salta la corda


Sara Ventroni racconta il proprio rapporto con città


Le prime sere accendeva la torcia elettrica per controllare che non ci fossero topi lungo le scale del condominio. Ma questo accadeva anche a Roma, nelle case a pianoterra col cortile interno a ballatoio. Per il resto, si trovava bene. Il balcone della sua camera dava su vicolo Maiorani, tra via dei Tribunali e San Biagio dei Librai, e lì metteva al sicuro il motorino, in una cantina improvvisata a garage. Qualche metro più su, un’icona illuminata ipnotizzava i passanti come le vecchie insegne a spirali dei barbieri: la Madonna Blu di Spaccanapoli ti fissava dalla teca con l’aria trasognata di una Monnalisa elettrica. Il suo alone enigmatico e fluorescente non aveva nulla da invidiare alle installazione al neon di Mario Merz.
Di edicole votate alla Madonna era piena anche Roma, ma quelle napoletane erano più eccentriche e tutto sommato anche più operative. Come quella d’ ‘e rrose, a vicolo San Liborio, che Filumena Marturano aveva preso di petto per sapere se doveva tenere il figlio oppure no. Alla domanda incalzante di Filumena, la Madonna se ne stava zitta, non dava consiglio, non si scomponeva. Poi aveva trovato modo di risponderle attraverso la sicumera di una voce, quella del popolo, che scandisce l’oracolo dalle persiane accostate. Ma a Filumena era bastato per capire quello che c’era da fare.
Nadia non aveva niente da chiedere, forse perché un fatto miracoloso era già accaduto: da Roma si era mossa verso Napoli e aveva trovato un lavoro.

Bisogna entrare in una nuova città col piede giusto, come a salta-la-corda: prendere il ritmo al balzo ed evitare una frustata in testa. La prima regola del gioco ha sempre a che fare con la lingua. E Nadia da subito aveva permesso alla modulazione del dialetto di annidarsi nella sua calata, ma senza quel retrogusto blasé di chi s’impossessa delle cose che non gli riguardano.
Lavorava in una casa-famiglia dalle parti del Centro Direzionale, coi picchiatelli, come li chiamava lei, uomini e donne sottoposti al TSO eppoi internati per un attacco di panico, una sensibilità fuori dal comune, un’omosessualità latente o per un male di vivere che sdoppia il cervello, lo sfilaccia in mille voci fino all’esplosione di quel centro unificante chiamato Io. Nadia lavorava con queste creature di generazione pre-Basaglia, un tempo rese inoffensive dai ripetuti elettrochoc eppoi placidamente governate dalla chimica dei giusti dosaggi di farmaci. Anche Michele Murri, ex rappresentante di gioielli, era diventato un picchiatello con il pallino del discorso-che-fila e l’ossessione per l’accuratezza linguistica. Bisognava dirgli sempre di sì. Ma a essere onesti anche Teresina, la sorella sana di Michele, mostrava qualche segno di nevrosi, con quelle manine rigide e le mosse meccaniche da burattino di latta.

L’andavo a trovare e mi fermavo per una sera, un fine settimana, un capodanno; qualsiasi motivo era buono per scendere a Napoli. Spesso Nadia veniva a prendermi alla stazione col motorino, altre volte andavamo a piedi, volutamente a casaccio tra un vicolo e l’altro. Anch’io iniziavo a orientarmi per i quartieri, tenendo sempre a mente la posizione del Golfo, anche quando scompariva dietro gli alberghi di lusso del lungomare.

Napoli, prima di frequentarla, per me non era un luogo comune. Non era maschere e malavita. Camorra e Pulcinella. Non era nemmeno Giambattista Vico, la Federico II, l’erre rotante da nobiltà decaduta o una terrazza con vista.
Napoli, prima di conoscerla, aveva il viso scavato di Eduardo De Filippo.
Non abbiamo origini napoletane e quindi non so ancora spiegarmelo. È un fatto, però, che nella mia famiglia Eduardo ha svolto la funzione di una bibbia profana, con le battute al posto delle parabole. Altre volte era un campionario di espressioni da cui pescare per fare il verso a un atteggiamento bizzarro, per imitare uno sguardo, per dire una cosa molto seria; altre volte ancora era una scusa per stare insieme una serata, anche se sapevamo a memoria tutte le commedie e per sfinimento il vhs s’inceppava. Eravamo e siamo ancora bambini che vogliono ascoltare le stesse storie per ridere e piangere nei soliti passaggi, o per mettere in risalto piccoli dettagli che erano sfuggiti.
Altre volte invece anticipavamo una frase, un gesto, una scena intera per dimostrare che Eduardo ormai era di tutti e di nessuno, e come ogni grande classico non apparteneva più solo a sé stesso. Non è il caso di spiegare cosa ha significato Eduardo per Napoli e viceversa; è certo però che quanto più dava voce alla sua città, alla sua lingua, al suo tempo, tanto più diventava universale.
C’è chi sceglie il prete e chi il medico. Per noi Eduardo è stato un punto di riferimento, una specie di maestro laico. Uno di famiglia.

Anch’io c’ero entrata col piede giusto e mi sentivo di casa, forse perché non avevo mai avuto frenesia di vedere Napoli, piuttosto mi ci ero mossa dentro, animata da quella lenteur che segna il passo quando hai la certezza che un luogo non ti sfugge.
La spesa a Forcella, una pizza da Di Matteo o da Bombolo, una passeggiata soprappensiero a Mergellina, i fuochi a mare, la macchina incagliata in retro su una scalinata ai Quartieri, il fiato sospeso davanti al Cristo Velato, il pesce all’alba ai mercati generali, un divano su cui papariare di primo pomeriggio, un caffè all’aperto dalle parti di piazza San Domenico.
Nadia non era certo una sprovveduta, e anche se sotto Natale andava a vedere i presepi e le luminarie tra i banchi di San Gregorio, non si lasciava sempre incantare dall’atmosfera rumorosamente colorata che Napoli, quando vuole, ti butta davanti agli occhi tanto per rassicurarti. Dalla finestra della sua cucina (aveva subito preso l’abitudine di calare il cestino con la corda), una volta m’aveva indicato i traffichini del quartiere, compreso il pezzo forte, un uomo che se ne stava seduto tutto il giorno su una sedia di paglia in mezzo alla piazzetta a controllare chi andava, chi veniva e chi, con ossequioso rispetto, si fermava a salutarlo.

Quando uno se ne va poi si chiede cosa resta, in quale parte del corpo una città è diventata per sempre nostra.
Ci sentiamo al telefono, ci scriviamo. Spesso, telepaticamente, siamo contente quando le cose vanno bene per entrambe. Ci conosciamo da sempre, d’altra parte.
Sono stata a trovarla a Madrid, dove è andata a vivere dopo tre anni di Napoli e uno di Siena. A quanto pare, ora si sta organizzando per il Brasile. Ma un conto è viaggiare, un conto è ricominciare daccapo ogni volta, senza un lavoro, in una città diversa, dentro una lingua straniera che magari ignora quell’ “italiano emotivo” - la parlata della gioia e della rabbia - fondamentale per dare carattere alla semplice comunicazione.
Nadia non sa spiegarselo bene: ancora adesso, quando è felice, la sua voce cambia sensibilmente registro per seguire l’invisibile sali-e-scendi dell’italiano modulato sulla vecchia frequenza del napoletano.

venerdì 24 ottobre 2008

A fari spenti

Vagabondando in rete mi sono imbattuto in un grosso pdf, tra i download di Repubblica.it, che raccoglieva un migliaio di scritti dei lettori sul tema "la meglio gioventù". Era di cinque anni fa (mamma mia, che paura! Avrei giurato che il film fosse più recente), e mi sono ricordato di aver partecipato anch'io. La promessa era che i migliori scritti sarebbero stati, appunto, pubblicati in pdf, ma a giudicare dalla mole del file è più verosimile che li abbiano pubblicati tutti. Ho cercato il mio, che tutto sommato mi piace ancora. Lo propongo qui. Se poi qualcuno avesse voglia di raccontare la sua, di meglio gioventù, lo ospiterò volentieri.

FARI SPENTI
Non era più tempo di contestazione, quella vera. Però la Pantera, nel '91, fu un'illusione, una rapida fiammata da braci ormai quasi spente. Avevamo 26 anni, andammo al nostro primo blocco ferroviario, io e Sandro. Fu anche l'ultimo della nostra vita: indossammo presto la cravatta, dopo quell'episodio. Ma ci credemmo, per qualche ora. Su un pendolino qualcuno aveva scritto: «non salire, merdoso padrone», e oggi che ci salgo spesso (ci salgono tutti) ogni volta mi trovo a pensare quanto sia strano che solo 12 anni fa qualcuno potesse considerare quel treno “un treno da padroni». Arrivò la celere - me ne ero già andato, Sandro era ancora lì. Non so perché tornai indietro: mi tremavano le ginocchia, nel passare il cerchio dei manganelli, gli sguardi che allora mi assalirono feroci - e oggi nel ricordo rivedo patetici - di quei poveracci in tenuta antisommossa. Però tornai, e rimasi con Sandro ad aspettare la carica che non arrivò. Non arrivò mai niente, per la nostra generazione: transizione tra furore e grigiore, piccoli fuochi subito spenti, e a fari spenti siamo arrivati fin qui, senza aver lasciato segni, se non dentro noi stessi. Ma lo stupore di Sandro nel vedermi tornare, e l'abbraccio: un attimo che da solo vale il fuoco che non divampò.

mercoledì 22 ottobre 2008

R.P.

Nel 2001 mi rubarono il portafoglio in ufficio. E chissenefrega, potreste dire voi. Le conseguenze di questo fatto, però, sono davvero notevoli e anche esilaranti, per cui ve le racconto.
Intanto fu già comico il modo in cui il ladro – sono quasi sicuro che fosse un uomo - usò la carta di credito: spese quasi un milione (c’erano ancora le lire) in un salone di bellezza, in meno di due ore; e quanto mai sarà stata brutta, la sua bella… Si comprò anche uno stereo, e poi esaurì quello che restava del plafond in buoni benzina.
Io feci la denuncia, riebbi quasi tutti i soldi dall’assicurazione, mi rifeci i documenti e pensai di poterci mettere una pietra sopra… E invece era solo l’inizio dell’incubo.
Dopo pochi mesi, mi arriva una convocazione dai carabinieri: vado e mi contestano una truffa a una concessionaria che aveva fruttato al truffatore una Porche da duecento milioni. Un tizio con i miei documenti, infatti, aveva trovato il modo di farsela consegnare dietro un anticipo ridicolo, e poi era sparito. Mi ci volle una mezza mattinata per convincerli che il tizio non ero io, nonostante la regolare denuncia di furto che avevo fatto all’epoca e la misera Peugeot 106 carta da zucchero parcheggiata appena fuori la caserma.
Da quel giorno, la capatina dai carabinieri divenne un’abitudine, tipo quelle gite culturali che uno si concede una volta ogni due o tre mesi; e siccome li pagano per essere sospettosi, i carabinieri, quelli interpretavano ogni volta al meglio il loro ruolo di probi tutori dell’ordine e mi torchiavano per un paio d’ore. Tra l’altro non erano mai gli stessi, per cui mi sono anche fatto una bella cultura sugli arredi interni delle caserme di mezza Roma e parte della provincia.
Finalmente, dopo un quattro anni dal fatto, arriva una convocazione che solo in apparenza era come tutte le altre: mi presento alla caserma di Tor di Quinto, mi fanno accomodare in sala d’attesa e… non succede più niente.
Io ho fretta di tornare al lavoro, comincio a sbuffare, passeggio nervoso, do chiarissimi segni di insofferenza, ma niente. Insieme a me attende una coppia di persone di una certa età, sono un po’ più pazienti di me, ma insomma, anche loro alla fine si innervosiscono. Chiamiamo il piantone – a vederlo pareva che avesse dodici anni -, facciamo una mezza scenata, quello si mortifica e diventa piccolo piccolo, farfuglia che il maresciallo è stato bloccato da un imprevisto, un’ispezione improvvisa, diventa tutto rosso, ci inteneriamo e lo lasciamo stare, ormai rassegnati al nostro destino. Ci rimettiamo seduti, siamo lì da quasi due ore, che fare?
Chiacchieriamo, io racconto la mia disavventura e loro fanno lo stesso; sono anche loro vittime di una truffa, hanno una pellicceria e si sono fatti abbagliare da un signore rispettabilissimo all’apparenza, molto elegante, accompagnato da una bambina – ispirano sempre fiducia -, che si è portato via venti milioni di pellicce pagando con assegni che quando la signora è andata in banca a versarli è stata trattata come se fosse lei, la ladra, e il cassiere ha pure chiamato i carabinieri. Adesso sono qui per chiarire questa storia e raccontare la loro versione dei fatti; il conto l’hanno chiuso, erano clienti da anni ed essere trattati in quel modo, insomma…non gli è garbato molto.
E chiacchieriamo per un’altra ora e mezza, alla fine ci rilassiamo, quasi ci scordiamo pure perché siamo lì, sospesi in quel limbo – una stanza squallidissima arredata con due panche di legno e un tavolo decrepito – in attesa che qualcosa succeda…
E infine la nostra attesa è premiata: appare il maresciallo, che si scusa, arrossisce pure lui, è costernato, eccetera eccetera; convoca prima la coppia, e restando da solo ho il tempo di pensare, e finalmente capisco: questi immensi bischeri hanno voluto fare un confronto all’amatriciana tra truffati e presunto truffatore, perché evidentemente non se l’erano mai levato dalla testa il sospetto che in realtà fossi stato io ad architettare tutto, compreso un falso furto di documenti. Quasi quattro ore mi hanno lasciato a bagnomaria con quei due poveracci, perché evidentemente una mezz’oretta non gli bastava. Quando vedo la coppia allontanarsi entro furente dal maresciallo, ma figuratevi se quello era disposto ad ammettere la furbata: è stato un caso, sì certo che il truffatore era lo stesso, ma io non dovevo assolutamente pensare a quello a cui avevo pensato, e poi in fondo mi doveva dare una buona notizia, l’avevano appena arrestato; non aveva confessato, ma le prove erano tali da poterlo inchiodare; tra le prove essendo compresa, suppongo, la pagliacciata di quella mattina, con me protagonista. Rapida consultazione telefonica con l’amico avvocato – Ma che voi denuncià, ma che sei scemo? Quello nun c’ha ‘na lira, co’ che te paga? Va affinì che paghi tu a me, e a te nun te paga nessuno.
Vabbè, OK, dico, lasciamo stare la cosa così. Non lo denuncio, basta che quest’incubo finisca qui.
Ma è un pia illusione: a febbraio di quest’anno (2008, sono passati sette anni dal furto) mi arriva una convocazione in tribunale, quale teste a carico di tale R.P.; presentarsi il giorno X, all’ora Y, a piazzale Clodio. Punto.
Ohibò, ma chi è R.P.? E io che ne so delle sue eventuali malefatte? Provo a informarmi, ma è assolutamente impossibile: nella convocazione non c’è un numero di telefono, un ufficio informazioni, niente. Non resta che andare al buio, e così faccio.
All’ingresso della palazzina, dove accedo dopo fila, raggi X e perquisizione, c’è un gabbiotto con su scritto “Ufficio informazioni” e poi, sotto, un cartello: “Chiuso per guasto tecnico”. Si sarà rotta la sedia? Comunque capisco l’antifona, rinuncio alle informazioni e vado direttamente in aula. Sul mio documento c’era scritto di presentarsi alle 11, e infatti a quell’ora arriviamo, puntuali e tutti insieme, una mandria di testimoni. E che avrà fatto mai, R.P.?
Ma è solo che loro i testi li convocano all’ingrosso, poi decidono lì per lì da quale processo cominciare, e il mio naturalmente è l’ultimo. In tribunale non c’ero andato mai, devo dire che quella mattina mi sono fatto una autentica cultura di penale. L’unica cosa che non capivo era perché non si pronunciasse una sentenza che era una, ma solo rinvii. Una volta mancava un teste chiave che era in ospedale, un’altra volta c’era un vizio di forma, e poi invasioni di cavallette, inondazioni del Tevere, atterraggi di UFO, qualsiasi cosa fosse idonea a impedire il pronunciamento.
Quando è toccato a me, il rinvio è arrivato ancora prima di cominciare: il cancelliere si è alzato e ha annunciato che R. P. (ma chi sarà mai costui?) non c’era – giustamente, ci ha tenuto a dire – perché lui aveva eletto domicilio presso l’avvocato Leguleio Azzeccagarbugli, ma aveva scelto come difensore l’avvocato Codicillo Azzeccagarbugli, e proprio all’indirizzo di quest’utimo era stata inviata la convocazione, non al domicilio eletto, per cui R.P. era assente (giustificato) per colpa del cancelliere (che era lui che stava parlando). E non potevasi procedere.
Sfatto e scoraggiato mi avvio all’uscio, inseguito però dal pubblico ministero che mi riconvoca a voce per il 17 ottobre, cinque mesi dopo. Ma non mi dice chi sia R.P., né cosa abbia fatto. Uscendo, però, vedo un tizio che mi pare di conoscere; lo avvicino, gli chiedo se pure lui si trovasse lì per R.P. e quello mi dice sì, è lui che l’ha arrestato. Allora guardo meglio e lo vedo, sì, è proprio il maresciallo di Tor di Quinto, così adesso finalmente so chi è R.P., e soprattutto cosa ci si aspetta che io dica.
Premesso che in tutto questo tempo più nessuna convocazione – nemmeno un memo – mi è giunta, il 17 ottobre mi sono ricordato per miracolo che dovevo tornare in tribunale. Solita trafila: perquisizione, raggi X, gabbiotto delle informazioni ancora “Chiuso per guasto tecnico” – e quanto ci vorrà mai ad aggiustare una sedia! – e nessuno che mi sappia dire dove devo andare. Per fortuna mi ricordo dove sono andato l’altra volta, e per puro culo l’aula del processo è ancora quella. Ma non si farà il processo, dice il cancelliere, perché è sciopero, appunto, dei cancellieri. – E allora lei che ci fa qui? – Ma per dire ai testi e al pubblico ministero (una vera bellezza, almeno questo lo devo dire) che sono in sciopero, non è chiaro? A me tanto chiaro non è, però lui pare convinto, e tocca abbozzare. Me ne vado, ancora più sconsolato della volta precedente. Non so nemmeno quando dovrò tornare, perché se lo voglio sapere devo aspettare almeno un’altra ora che scenda il giudice. Per le scale mi si affianca una fata. Non è il PM, è ancora più bella, si presenta come il nuovo avvocato di R.P., non capisco cosa voglia, facciamo qualche rampa di scale insieme, mi parla come se fossi un teste a discarico, invece del principale teste dell’accusa. Mah. Mi saluta, se ne va sculettante nel suo tailleur. E io resto lì con una domanda, una sola, che non ho il coraggio di pregarla di porre per me al suo assistito, a R.P.: ma quei quattro milioni che m’hai fregato non me li potevi chiedere, che io te ne davo pure il doppio e la Porche te la compravo io, pur di evitare questa persecuzione?
Naturalmente, alla fermata dell’autobus scopro che è sciopero pure dei mezzi pubblici. Taxi manco a parlarne, il lavoro aspetta e impelle. Da piazzale Clodio a Via Nazionale saranno buoni quattro chilometri. Indovinate un po’ come se li è fatti il vostro GPZ? R.P., R.P…. se solo potessi averti tra le mani...

martedì 21 ottobre 2008

Cercasi Marx disperatamente

Chi mi conosce sa che lavoro in Banca d’Italia, che è uno dei centri nevralgici della gestione della crisi finanziaria di questi mesi, almeno per il nostro paese e per l’Europa; quanto sto per scrivere non rappresenta però un punto di vista privilegiato: intanto il mio mestiere non è quello dell’economista, e a seguire la crisi sono colleghi più competenti di me in questa materia; e poi, se avessi informazioni riservate non potrei ovviamente rivelarle.
Parlerò quindi – tanto per cambiare – di massimi sistemi; l’unico vantaggio che mi deriva dal mio lavoro, in questo caso, è il fatto di poter spesso affrontare simili argomenti con colleghi di grandissima professionalità, cultura e con esperienza ultradecennale, il che mi dà – oggi – una ragionevole certezza di non dire troppe scemenze.
Cominciamo dal concetto di rischio: io penso che esso sia ampiamente sottovalutato, in Occidente, da almeno quarant’anni; le società sono nate, in fondo, proprio per gestire rischi esogeni, cioè provenienti dalla natura: fame soprattutto, ma anche malattie, esposizione a intemperie e predatori, e così via. Al posto di questi rischi, più o meno decentemente gestiti, le nostre società hanno però generato dei rischi endogeni, che sono esattamente quelli con cui ci stiamo confrontando in questo periodo: il rischio di impoverimento, di perdita della propria posizione sociale, o addirittura della casa e di altri beni necessari. Per molto tempo – potremmo dire per tutto il periodo che va dal secondo dopoguerra a oggi - questo rischio è apparso talmente remoto da scomparire del tutto dalla percezione: fino agli anni settanta tutti erano certi di essere poveri, sì, ma anche convinti di star rapidamente migliorando la propria posizione, e che altrettanto sarebbe avvenuto in futuro; quando, nel decennio dei settanta, la crescita economica è cessata, ci si è dibattuti molto nella crisi, che infine è stata risolta per due vie: da un lato, usando lo strumento dell’indebitamento dello stato per finanziare la spesa corrente e, almeno in Italia, arruolare legioni di lavoratori pubblici inutili, fraintendendo dolosamente Keynes, che questo strumento lo vedeva a sostegno degli investimenti; questo ha spostato il costo della crisi di allora su chi avrebbe poi dovuto rimborsare quel debito, e cioè sulle generazioni future, che siamo noi: il debito italiano è una cifra che non riesco neppure a scrivere e ogni anno ci paghiamo sopra interessi per settanta miliardi di euro e oltre, che vengono sottratti ai servizi, alla scuola, al welfare e a tutto il resto. L’altra via è stato un affrancamento totale e incondizionato da qualsiasi controllo non del mercato, come si sente spesso ripetere, ma del grande capitale, che è una entità che il mercato tende più che altro a manipolarlo a proprio vantaggio; il grande capitale ha fatto il suo mestiere: ha intrapreso attività di ogni genere in giro per il mondo, si è moltiplicato a dismisura e le briciole sono state distribuite un po’ a tutti, finché la giostra è durata. Ed erano briciole importanti, che hanno creato un certo benessere e quindi hanno fatto chiudere tutti e due gli occhi sul modo in cui queste risorse venivano prodotte.
Hanno iniziato Reagan e la Tatcher, la caduta del muro ha dato ovvio impulso a queste politiche e, nel giro di un decennio, anche i maggiori partiti della sinistra mondiale – tipo il Labour di Tony Blair – si sono portati su indirizzi decisamente liberisti, lasciando l’onere di portare la falce e il martello a frange marginali destinate a scomparire.
Vedete, in questa rapida cavalcata il concetto di rischio ce lo siamo infine dimenticato anche noi; ma una politica liberista implica necessariamente una consapevole ricerca di rischi, che gli imprenditori si assumono perché vengano remunerati; la popolazione non ne veniva gravata perché per far funzionare il welfare (l’assicurazione contro i rischi per la gente comune) ci si indebitava, ma il gioco non poteva continuare per sempre, e infatti adesso il giocattolo si è rotto: molte imprese, tra cui le banche, grazie alle politiche amichevoli e permissive del liberismo sono diventate dei colossi transnazionali che nessuna legislazione statale può contenere, e hanno cominciato a trasferire parte dei rischi che si erano assunte sulla clientela, cioè su tutti noi. Lo hanno fatto facendoci inconsapevolmente partecipare ai loro investimenti, vendendoci prodotti di cui non capivamo niente e che erano in realtà pezzi (tranche, si dice in finanza) di crediti in capo a loro e che sono infine diventati inesigibili in una misura molto superiore a quanto stimato inizialmente; i famosi subprime, per esempio, e molto altro ancora. E poi a fare finanza non c’erano solo le banche: la finanziarizzazione è in realtà un momento pressoché inevitabile della fase finale dei cicli espansivi che caratterizzano il capitalismo, e si verifica quando i grandi capitali, non trovando più un impiego redditizio nell’industria -.perché troppo rischioso, o troppo costoso, o perché il mercato è saturo – si indirizzano verso l’ingegneria societaria e finanziaria: fusioni, acquisizioni, buy-out e così via. O verso la Cina, ma questa è un’altra storia e non è finanza, se non in parte.
Anche di fronte a tutto questo, uno potrebbe pensare che in fondo la cosa non lo riguarda, se non ha investimenti in borsa; ma questo non è vero, perché in borsa ci stiamo tutti, anche se non lo sappiamo: ci stiamo con l’indicizzazione del tasso di interesse del mutuo che abbiamo contratto, o con le quote del fondo pensione aziendale, che scendono a precipizio, o con il valore oscillante dei BOT che abbiamo sottoscritto. Insomma, una ricchezza che avevamo e che credevamo valesse un certo X ora vale molto meno, e se malauguratamente ci eravamo anche indebitati contando su quel valore finiamo in difficoltà. E il rischio, che credevamo di aver esorcizzato, rientra prepotentemente nella nostra vita. Con l’aggravio di un surplus – il debito abnorme - che non ci competerebbe, che viene dal passato, è stato scaricato su di noi per garantire il benessere a qualcun altro, ieri.
La finanza tocca la vita reale anche di chi non la fa, eccome se la tocca. Secondo me è ora di smettere di pensare alla finanza come al demonio o come a un casinò dalle regole incomprensibili, che si contrappone alla buona e sana economia reale; nella filiera produttiva del nostro mondo capitalistico la finanza è il luogo dove le imprese vanno a prendere in prestito i soldi per realizzare i propri progetti, e quindi i propri profitti, e quindi pagare i nostri stipendi. Può non piacere - e infatti a me non piace – ma è così, innegabilmente. Volere un mondo senza finanza è come voler cancellare – che ne so – l’industria dei trasporti.
Questo vuol dire che, in un mondo fatto come il nostro, non possiamo scandalizzarci se 850 miliardi di dollari più quasi 500 miliardi di euro per salvare le banche saltano fuori dalla sera alla mattina, e invece quei miseri trenta o anche meno miliardi di dollari l’anno per dimezzare gli affamati nel mondo non si sono mai trovati: le banche sono una colonna portante di questo sistema, l’impresa in sé lo è, e quindi vanno salvaguardate; se non lo facessimo, nel giro di pochi mesi saremmo tutti alla fame. Ma letteralmente, non per modo di dire.
Se ora ci scandalizziamo (io, almeno, mi scandalizzo molto) per il fatto che questi signori vogliono lo stato fuori quando fanno profitti e lo invocano invece a gran voce quando arriva la bufera, non è al semplice decoro che dobbiamo far riferimento: dovremmo avere il coraggio di mettere in discussione la stessa architettura di base del nostro mondo capitalista. Il richiamo al decoro non ha mai portato nessun risultato: ora che c’è la tempesta siamo letteralmente obbligati a soccorrere lor signori, che altrimenti ci seppellirebbero sotto una montagna di macerie; e quando tornerà il sereno ci troveremo noi con il conto in mano, sotto forma di ulteriore debito pubblico, mentre questi imperi economici riprenderanno a dettar legge agli stati nazionali – cioè a tutti noi – semplicemente comprandosi governi e parlamenti. O insediandosi direttamente dentro di essi, come da noi.
Dice che l’unico che ha provato a inventare un sistema diverso ha dato vita a molti tra i peggiori regimi della storia: è vero. Ma è forse bello questo? E soprattutto, non è che sta per venire giù? Un nuovo Marx, più lungimirante dell’originale, urge moltissimo. Fossi un presidente del consiglio, quasi quasi bandirei un concorso.

martedì 14 ottobre 2008

Donne, uomini e parità di diritti

di Cristiana Capagni – pubblicato su La Voce Democratica – Giugno 2007

Chi ha combattuto le battaglie per la parità dei diritti fra uomo e donna probabilmente è consapevole del fatto che molto, moltissimo è stato fatto ma che ancora parecchio rimane da fare.
Tra l’altro è una questione che non può avere confini: bisogna impegnarsi perché gli esseri umani siano considerati tali senza alcuna distinzione in qualsiasi zona di mondo.
Ciononostante è innegabile che le donne occidentali hanno conquistato un livello di emancipazione decisamente più elevato rispetto ad alcune realtà di contesti culturali differenti.
Rimane il fatto che la questione è scarsamente considerata dalle nuove generazioni. In effetti, molte giovani donne non sentono il problema sulla propria pelle e sono convinte che il tema non riguardi le donne occidentali. Questo significa che a livello generale la guardia è stata abbassata, e questo non bisogna mai farlo, è molto pericoloso.
Ciò detto e sottolineato, mi domando se quando affrontiamo tali temi non siamo colpevoli di superficialità nei confronti dell’altro sesso, quello cui affibbiamo l’etichetta di brutale e che forse dovremo considerare con maggior attenzione senza fermarci alle apparenze. Prima di tutto, migliorare la condizione femminile non può essere un’attività che si svolge entro compartimenti stagni: si deve agire contestualmente sulla condizione maschile. Che dall’esterno appare come una condizione “privilegiata”, di forza e di comando, tuttavia l’uomo che agisce tramite violenza fisica o psicologica nei confronti della donna sta esprimendo un suo disagio ed è su questo che andrebbe focalizzata un po’ di attenzione, perché se non si modifica il contesto nel quale il maschio cresce assorbendo valori errati, tutti gli sforzi per migliorare la condizione femminile saranno vani.
Non si tratta dunque (o almeno: non solo) di armare le donne perché siano in grado di difendersi dagli uomini, ma di far deporre le armi a quegli uomini che non sanno farne a meno, probabilmente perché solo dietro di esse si sentono al sicuro. Un atteggiamento aggressivo ha sempre come matrice una profonda insicurezza.
La maggior parte degli uomini però, se pure è vero che all’interno di ogni uomo è subdolamente in agguato un maschilista, non sono dei bruti che menano le mani. Dovremmo imparare a guardare ad essi come esseri umani: con le loro fragilità, i loro dubbi, le loro incertezze, le difficoltà enormi del trovarsi senza un punto di riferimento. Abituati fino a ieri ad avere modelli che non sono più validi oggi. In cerca di un equilibrio che è difficile trovare se continuiamo a sparar loro addosso, magari anche solo con una cerbottana.
Fra questi uomini, vi sono anche vittime. Padri separati ai quali vengono sottratti i figli, utilizzati come mera merce di scambio per ottenere un assegno di mantenimento più elevato.
Mariti che subiscono angherie sotto il ricatto “se divorzi ti rovino” e tanto si sa che è così, poiché a tutt’oggi il “coniuge debole” che viene tutelato è sempre la donna, nessun giudice verifica alcunché. Non è maschilismo anche questo? Perché si deve partire dall’assioma che la donna debba essere tutelata tout-court in caso di divorzio, riconoscendole dunque uno status di inferiorità? Non potrebbe darsi che sia l’uomo a dover essere tutelato? Eppure quanti casi si citano in giurisprudenza di ex mariti mantenuti dalle ex mogli?
Uomini che subiscono violenza fisica. No, non fa ridere. E’ drammatico. Perché proprio quei valori “di ieri”, quelli che oggi non riconosciamo più perché cristallizzavano la figura dell’uomo dominatore, ebbene sono proprio gli stessi che ci fanno ridere se è la moglie a picchiare il marito, che ci rimandano alle barzellette, che ci fanno archiviare la cosa con un “no, non è possibile”. Uomini che subiscono violenza psicologica. Anche qui, stentiamo a credere. Perché “l’uomo è il sesso forte”.
Eh no, se siamo tutti uguali, non esiste più un sesso forte né uno debole. Esistono esseri umani, cui vanno riconosciuti pari diritti e pari dignità. Caso per caso, se non costa troppo sforzo.