lunedì 17 agosto 2009

Un pessimo Paragone

In questa giornata torrida di un mese torrido di un’estate torrida, con Roma deserta e desolata sotto il sole che scioglie l’asfalto e il Gattopuzzo a tirare con i denti fino all’agognata partenza per le ferie, bisogna darsi un compito facile, altrimenti anche scrivere diventa una tortura. Insomma, il classico tiro a segno sulla croce rossa, che è sleale ma oggi è l’unica cosa che mi riesce di fare.
Meno male che c’è la razza padana, che in questi casi si presta davvero a meraviglia alla bisogna.
Dunque, Libero , degno giornale di cotanto popolo, pubblica un articolo a firma Gianluigi Paragone che non si può leggere in chiaro (sembra incredibile, ma evidentemente c’è qualcuno disposto a pagare per leggere questi qui) e che reca il titolo "Ridicola sinistra se ora gioca con la gru". Chi fosse interessato, comunque, lo può trovare nella rassegna stampa on line del Senato.
Il sofisticato ragionamento di questo raffinato intellettuale si articola secondo il seguente iter logico: atteso che i lavoratori della INSSE hanno vinto la loro battaglia a difesa del posto di lavoro issandosi su un gru e restandoci finché qualcuno non si è fatto carico del loro problema; dato che costoro hanno già trovato imitatori nei vigilantes che si sono accampati sul Colosseo e in un altro combattivo gruppuscolo di operai di una fabbrica laziale che sta chiudendo i battenti; accertato che la crisi è tutt’altro che finita e in autunno saranno migliaia le imprese che non riapriranno; date tutte queste premesse, ci aspetta verosimilmente un allarmante proliferare di queste iniziative pericolose per chi le mette in atto e socialmente dirompenti, perché sarà impossibile confezionare salvagente per tutti. E male fa il sindacato a rallegrarsi della vittoria di questi moderni stiliti, che rappresenta invece uno scavalcamento del sindacalismo.
Tutto questo può essere anche vero e anzi probabilmente lo è, ma le argomentazioni “ancillari” a questo filone argomentativo principale riescono contemporaneamente a far ridere per la pochezza e a far incazzare per la malefede. Unico dato positivo: adesso sappiamo che anche l’ottimismo d’ordinanza del valoroso manipolo dei giornali governativi registra qualche defezione, se un pasdaran come Paragone – già vice direttore di Libero, se non ricordo male, e ora ahimè del TG1, coi soldi nostri - si lascia sfuggire che “Centinaia e centinaia di lavoratori si ritroveranno a casa, alcuni scoperti dagli ammortizzatori […]”, alla faccia degli editti comunicativi del Berlusca che ancora va apparecchiando a chi ci vuole credere la frottola - di indubbio impatto mediatico, nel paese dei proclami - che “nessuno sarà lasciato indietro”.
Il nostro bravo opinionista si lascia andare ad una autentica intemerata: “Mi viene davvero difficile pensare che il sindacato […] possa davvero esultare per questa ‘nuova protesta di lotta non violenta’. Non violenta un corno! Mettere a repentaglio la vita è un gioco al ribasso. Aggiungo, squallido. […] Questo è un ricatto.” Il perché? Ma è ovvio: “Se un imprenditore chiude non lo fa mai a cuor leggero. Dobbiamo uscire dallo schema culturale cui ci spingono i sindacati e certe penne pseudo-riformiste (complice il balbettamento della
Confindustria) per cui i lavoratori sono sempre eroi mentre gli imprenditori, egoisti e carogne. […] A nessuno fa piacere mettere la gente per strada. […] chi chiuderà non lo farà comunque a cuor leggero
”.
Insomma, indulgenza per gli imprenditori, che hanno un cuore anche loro. Io personalmente non ho motivo di dubitarne, ma fa un po’ strano sentire parole così toccanti, al limite dell’intenerimento, dalle stesse bocche che pochi giorni fa hanno vomitato contumelie in grande copia sulle donne tutte, che invece un cuore non ce l’hanno e quando ricorrono all’aborto lo fanno con evidente compiacimento, tanto che ora addirittura vogliono rendere più dilettevole la pratica risolvendola con una caramella chimica che le sottrarrà, fellone, anche al giusto – benché minimo – castigo che è il ferro del chirurgo, unico residuo dei rischi mortali del tempo che fu. C’entra come i cavoli a merenda? Mica tanto: la lista dei condannati e degli assolti la dice tutta sulla scala dei valori di questa gente, su chi siano secondo loro i buoni e i cattivi, i soggetti da tutelare e quelli da mettere sotto schiaffo.
Ma il meglio arriva quando Paragone chiama in causa la cultura, anzi: nientemeno che la letteratura, benché di stampo scientifico-filosofico. E’ un’esposizione non meno che azzardata, dato il rapporto non proprio amichevole che notoriamente intercorre tra il popolo padano e tutto ciò che l’ingegno umano ha affidato alla carta stampata: “Secondo una certa letteratura l’imprenditore pensa solo al suo portafoglio, a danno dei lavoratori. Questa letteratura si incastra con il pensiero diffuso a sinistra[…]”.
Questa “certa letteratura” tanto cara alla sinistra, come la chiama nella foga della pugna il generoso e temerario Paragone, sta scritta nelle primissime pagine di tutti i libri di economia, da quelli dei ragionieri fino ai trattati dei premi Nobel. E c'è chi ne fa il motore stesso dell'economia, in particolare quelle teorie e quei sistemi di pensiero che hanno sempre rivendicato il diritto dell’imprenditore, per non dire il dovere, a perseguire il massimo profitto, e nient’altro che quello; o, se non lo hanno rivendicato, lo hanno comunque sempre accettato come dato di fatto, come premessa alla base di qualsiasi teoria: l’imprenditore ha un capitale e vuole accrescerlo. Punto.
Questo prima dell’avvento del pensiero di Paragone, ovviamente.
La teoria economica, così rudemente sconfessata, torna però buona e utile qualche riga dopo: “[…] non è esponendo il proprio corpo a un pericolo che si terranno in vita aziende decotte. Le aziende nascono e muoiono in virtù di diversi fattori, il più importante dei quali è l’incontro tra domanda e offerta[…]”. Meno male, almeno una delle leggi fondamentali l’abbiamo salvata.
Ma il sollievo dura poco, pochissimo, che ci aspetta la filippica finale: “Certo, è difficile da accettare in un Paese che generò l’equivoco già dall’articolo uno della Costituzione: l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Un equivoco dogmatico che ha attrezzato una sociologia del lavoro, un diritto del lavoro una politica del lavoro, insomma un armamentario ideologico base di tanti equivoci nella dialettica tra industriali e lavoratori. L’icona del lavoratore che si immola su una torre o una gru o sul tetto rischia di essere l’ultimo abbaglio di una sinistra e di un sindacato in profonda crisi di identità. Esattamente come era stata la battaglia sui precari, dei quali il simbolo fu l’operatore del call center. Non c’era dibattito — ricorderete - in cui non usciva fuori il telefonista come caso emblematico del precariato. I dati elettorali e la segmentazione avrebbero dimostrato che per i giovani non esisteva nessun dramma precariato; avevano capito le opportunità di una equilibrata flessibilità[…]”.
Dice che l’antiberlusconismo non paga, che con gli avversari bisogna dialogare fino a trovare un punto d’intesa. Ma con uno così, uno che ad un certo punto dice pure chiaro e tondo che le proteste degli operai sono destinate a diventare più che altro un problema di ordine pubblico; con uno come questo, e soprattutto con quelli per cui lui scrive, mi sapete dire che cosa potrò mai avere a che spartire, a parte la disgrazia di essere nati sullo stesso suolo?

martedì 11 agosto 2009

Mille città

Ogni giorno attraversiamo universi che si compenetrano con il nostro, e non li vediamo.
Io vado al lavoro a piedi passando in rassegna quotidiana meraviglie che i più non vedranno nell’arco di una vita: San Pietro, Castel Sant’Angelo, Piazza Navona, il Pantheon, Fontana di Trevi. Se cambio itinerario: Campo de’ Fiori, i vicoli del Ghetto. E sempre mille e mille angoli di geenna, tutti in piena luce, in questa città odorosa di paradiso e dell’incenso di millanta chiese.
Appena uscito di casa vedo l’anziano stracciato e maleodorante in piazza Pia, che rumina borborigmi che giungono all’orecchio come un rombo di tuono lontano e ininterrotto, malevolo forse, non si capisce, non potrò mai dirlo. Poi attraverso il ponte, su cui implora silenziosa la vecchia zingara che elemosina prostrata a toccar terra con la fronte, con davanti l’immagine di un santino. A via della Scrofa (quando devio da quella parte) c’è un signore dalla gran barba bianca e dall’età incognita che ti sorride anche se non gli lasci niente. E tanti, tanti altri: Angelo, barba lunga e bianca pure lui, da sempre a domicilio variabile tra via dei Serpenti e via Nazionale, quasi sempre calmo, a volte rissoso che è meglio se passi avanti e fai finta di non averlo visto; una donna giovane che ha sempre su una faccia amara e una volta sì e una no è ubriaca, spesso sporca, ma i capelli lunghissimi e ricci li tiene sempre in ordine e puliti: come, dove se li lavi non è dato sapere; un tizio che sembra pakistano o indiano e vive sdraiato alla fine di via del Plebiscito, sempre sporco, non capisci se non parla perché non sa la lingua o perché è via di testa, o perché non ne ha voglia e basta. Zingare che vagano, di ogni età, disperati giovani e di mezza età, un paio di signori anziani che si aggirano con sulla pelle le stimmate dell’umiliazione: devono aver deragliato proprio verso la fine, adesso che non hanno più la forza di reagire, dopo una vita borghese e probabilmente ristretta ma sempre dignitosa. A Largo Argentina un’africana in carne come una mami che ride sempre di cuore con al collo un cartello “sono povera ma felice”, davanti a Feltrinelli una tizia magrissima ondeggia sulle anche e stride le arie di un’opera sconosciuta torturando le corde vocali ad emettere un suono di violino scordato che maciulla i timpani anche all’analfabeta musicale che sono io. Poi quello che l’altro giorno mi ha fregato, il professionista dello sguardo vacuo che pare non ti guardi e a cui la mano trema improvvisa proprio mentre stai per passare oltre, e ti spinge a pensare – mamma mia, ma questo sta male per davvero! –, tanto che mi sono trovato l’unica moneta che avevo in tasca, due euro, e glieli ho dati, e solo mentre glieli davo si è tradito, afferrandoli rapace e quasi senza ringraziare, ma ormai...
Vivono in un’altra città. Calchiamo le stesse strade, incrociamo tutti i giorni i nostri passi, ma viviamo in due città diversissime e remote l’una all’altra. Dov’è che abitano loro? Abitare non è stare: abiti se hai relazioni, se vivi i luoghi, se nell’impararli usi il corpo fino a trovare quelli che sembra che ti avvolgano e ti accolgano, se sai riconoscere quelli ostili e spigolosi, da cui stare alla larga. Questo popolo che guarda la città dal basso del selciato e dell’asfalto, che la setaccia alla ricerca di avanzi,di oggetti, di cibo e di elemosina, che la fruga e la perquisisce fin dentro l’immondizia, abita Roma molto più di quanto la potrò mai abitare io, che la percorro due volte al giorno attraversandone i pavimenti sporchi e sconnessi e il palcoscenici sontuosi come su un cuscino d’aria, senza mai toccarne realmente la carne e senza esserne toccato.
Non è la mia città, Roma. Ci piacciamo, ma non ci apparteniamo. Un giorno ci separeremo. Ma a tanti, anche romani, la materialità del suolo e dei luoghi sfugge ormai, sfuma e si dissolve nella rarefazione degli ambienti asettici in cui non si suda e non si rabbrividisce: uffici, case. In mezzo corrono percorsi come binari sospesi, che attraversiamo con in mano il giornale o pensando ad altri luoghi, altri spazi, ascoltando altri suoni che non quelli del mondo che preme intorno ai nostri passi.
C’è una città dei mendicanti, una città degli zingari, una dei banditi, una dei ragazzi, un’altra degli anziani e nessuno può dire quante altre: regni che condividono un territorio. Ognuno di noi può brevemente intravedere qualche reame confinante, dipende da quanto è fitta la nebbia che avvolge la città che abita.
A me è dato di scorgere, tutti i giorni, i confini della città dei mendicanti: è il reame più vicino a quello che abita la maggior parte di noi, si può anche visitare, e parecchi hanno finito per andarci ad abitare. Tra le tante città che si sovrappongono in quest’unica Roma è quella che più sta crescendo, e fa paura: gli si muove guerra, si dà la caccia ai suoi abitanti, li si porta via, lontano, solo per vederli di nuovo brulicare il giorno dopo, ancora intenti a cingere d’assedio la città che abitiamo noi e che la loro semplice presenza sempre più sfilaccia, rende opaca, meno vera. Ad essere sempre più vera è la città che abitano loro e che ora anche noi vediamo bene, con gli stracci e i cartoni a trasformare in casa ogni vicolo, ogni anfratto, ogni gradino in grado di offrire un riparo minimo.
Chi è andato a stare là vede questo mondo crescere e occupare gli stessi spazi di quello che gli si è dissolto intorno, esplora un universo nuovo, conosce cose che non credeva potessero coesistere nella città che già credeva di abitare.
Ma ci sono conoscenze che i più preferirebbero lasciare nell’oblio.