venerdì 30 ottobre 2009

Libertà vo' cercando...

Non aver mai pubblicato Saadat Hasan Manto, se mi si concede la licenza di una esagerazione, dovrebbe pesare sulla coscienza degli editori italiani come una colpa grave, ora fortunatamente emendata da una casa editrice indipendente che ne ha fatto il suo libro d'esordio (curiosamente, si chiamano Fuorilinea: www.fuorilinea.it).
Conobbi Manto qualche anno fa, consigliato da un amico indiano. Feci fatica a credere alle sue parole, che mi parlavano di uno dei maestri mondiali del genere short story: come mai un simile portento era ignoto non solo a me, ma a tutti i bibliofili che conoscevo? Lo scetticismo me lo sono dovuto rimangiare tutto in un boccone pochi giorni fa, dopo aver divorato in due giorni tutti i racconti di questa selezione. Tragico, sorridente, cinico, ghignante, sornione, Manto sta sempre dietro (e spesso dentro) a ciò che narra, con il suo carattere ingombrante e il suo sorriso bonario. Da vero narratore, non ha bisogno di enunciare tesi: fa parlare le sue storie, e ''Se trovate che i miei racconti siano osceni, è la societa' in cui vivete a esserlo. Con i miei racconti, io mi limito ad esporre la verita''. C’è tutto Manto in questa affermazione: l’uomo libero di mente che nacque indiano e musulmano, nel 1912, e morì pakistano e alcolista a poco più di quarant’anni. La cesura artificiale che tagliò via il Pakistan dall’India – la Partizione - divenne per la sua anima la frattura dolorosa dalla quale scaturì però la fonte della sua ispirazione più autentica: i suoi sono racconti di persone comuni, contadini, perfino matti nel bellissimo “Toba Tek Singh”, che non comprendono la logica – questa sì, davvero folle – della separazione dall’amico di ieri, dell’odio nazionalistico e del fanatismo religioso; non la comprendono eppure vi soccombono, proprio come in ogni tempo, compreso il nostro, gli inconsapevoli sono spesso vittime (e strumenti, o addirittura complici) di progetti che necessariamente li travolgono. Ma c’è anche molto altro, nel mondo di Manto: Bombay, esagerata allora come sempre, con il suo sottobosco di prostitute, magnaccia, perdigiorno, attori scombinati e lo stesso Manto, che a Bombay è giornalista, critico, scrittore di teatro e di cinema e, infine, protagonista e comprimario delle storie che racconta. Più volte processato per oscenità, e non sempre assolto, dopo la forzata emigrazione in Pakistan per proteggere la famiglia dalle rappresaglie degli Indù cedette all’alcol, che lo portò alla tomba. Non aspettatevi di leggere denunce vibranti o intemerate contro il potere: Manto non era un moralista, era un uomo che lucidamente vedeva e lucidamente descriveva. Fatti, persone e anime. Ha scritto storie sincere, prima ancora che belle. Per la sua libertà interiore ha pagato un prezzo alto, e chissà se ha finalmente avuto risposta alla domanda che volle come suo epitaffio: “Here lies Saadat Hasan Manto. With him lie buried all the arts and mysteries of short-story writing… Under tons of earth he lies, wondering who of the two is the greater short-story writer: God or he”.

venerdì 2 ottobre 2009

Re Carlo tornava dalla guerra...


Re Carlo tornava dalla guerra
lo accoglie la sua terra
cingendolo d'allor;

al sol della calda primavera
lampeggia l'armatura
del sire vincitor

il sangue del principe del Moro
arrossano il cimiero
d'identico color

ma più che del corpo le ferite
da Carlo son sentite
le bramosie d'amor

vi ricorda nessuno?
Ma andiamo avanti:

"se ansia di gloria e sete d'onore
spegne la guerra al vincitore
non ti concede un momento per fare all'amore

chi poi impone alla sposa soave di castità
la cintura in me grave
in battaglia può correre il rischio di perder la chiave"

così si lamenta il Re cristiano
s'inchina intorno il grano
gli son corona i fior

lo specchi di chiara fontanella
riflette fiero in sella
dei Mori il vincitor

Quand'ecco nell'acqua si compone
mirabile visione
il simbolo d'amor

nel folto di lunghe trecce bionde
il seno si confonde
ignudo in pieno sol

Mai non fu vista cosa più bella
mai io non colsi siffatta pulzella
disse Re Carlo scendendo veloce di sella

"De' cavaliere non v'accostate
già d'altri è gaudio quel che cercate
ad altra più facile fonte la sete calmate"

Sorpreso da un dire sì deciso
sentendosi deriso
Re Carlo s'arrestò

ma più dell'onor poté il digiuno
fremente l'elmo bruno
il sire si levò

codesta era l'arma sua segreta
da Carlo spesso usata
in gran difficoltà

alla donna apparve un gran nasone
e un volto da caprone
ma era sua maestà

lasciamo da parte la maestà, che in queste lande piuttosto bisogna parlare di satrapi (e in effetti non vedo nessuno della statura Carlo Martello). Il canovaccio, comunque, resta valido: un signore potente, una signora piacente.

"Se voi non foste il mio sovrano"
Carlo si sfila il pesante spadone
"non celerei il disio di fuggirvi lontano,

ma poiché siete il mio signore"
Carlo si toglie l'intero gabbione
"debbo concedermi spoglia ad ogni pudore"

Cavaliere egli era assai valente
ed anche in quel frangente
d'onor si ricoprì

anche qui… a Carlo non serviva il viagra e men che mai le punture sul pisello… Vabbè, possiamo sempre pensare che la sua prestanza fosse dovuta alle arti oscure di qualche negromante.

e giunto alla fin della tenzone
incerto sull'arcione
tentò di risalir

veloce lo arpiona la pulzella
repente la parcella
presenta al suo signor

"Beh proprio perché voi siete il sire
fan cinquemila lire
è un prezzo di favor"

"E' mai possibile o porco di un cane
che le avventure in codesto reame
debban risolversi tutte con grandi puttane,

Anche adesso Carlo fa un figura leggermente migliore rispetto a Silvio: lui, almeno, non lo sapeva davvero che la signora era ben che avvezza a un certo tipo di concessioni.
Il seguito dell’avventura, però, annulla ogni distanza. Di secoli e di stile.

anche sul prezzo c'è poi da ridire
ben mi ricordo che pria di partire
v'eran tariffe inferiori alle tremila lire"

Il re tira sul prezzo...

Ciò detto agì da gran cialtrone
con balzo da leone
in sella si lanciò

frustando il cavallo come un ciuco
fra i glicini e il sambuco
il Re si dileguò

Alla fine – incredibile! – si dà alla fuga senza pagare, come un cialtrone qualsiasi. Come Silvio, che promette alla D’Addario di interessarsi della sua concessione edilizia e di candidarla alle europee, e alla fine la lascia con niente in mano.

Re Carlo tornava dalla guerra
lo accoglie la sua terra
cingendolo d'allor

al sol della calda primavera
lampeggia l'armatura
del sire vincitor.

L’armatura di Carlo alla fine risplenderà comunque: è stato un puttaniere vigliacco, ma un grande re. Secondo certa dottrina gesuitica va assolto, ha fatto bene il suo mestiere. Ma Silvio? Che ne sarà del povero Silvio al cospetto della Storia, quando di lui resterà soltanto il ciarpame? Unica consolazione: non ha la statura perché la sua memoria possa durare mille anni. Presto la sua triste era uscirà anche dai libri di scuola, e finalmente – se non noi – i posteri almeno potranno dimenticarlo.
Comunque, la canzone è bellissima: è di De André, non so se semplicemente ispirata dalla poetica dello chansonnier francese George Brassens, o addirittura scritta da lui e poi tradotta in italiano da Fabrizio. La mia cultura musicale, ahimè, lascia molto a desiderare. Chi la volesse ascoltare può cliccare qui sotto:

giovedì 1 ottobre 2009

Facciamoci scudo


Lo scudo fiscale che consente di riportare in Italia i capitali guadagnati criminosamente ed esportati illegalmente al prezzo misero del 5% e con la copertura dell’anonimato è una presa per il culo alla nazione. Chi ha misure simili (si fa per dire) impone tassazioni superiori al 50% (fino al 100% della Francia) e la pubblica notorietà degli evasori.
Sacrosanta la protesta delle opposizioni? Forse. Diciamo sacrosanta quella di chi a votare contro lo scudo fiscale ci è andato. Strumentale quella di quei partiti (PD e UDC) che hanno fatto mancare il 25% dei loro onorevoli al momento di votare gli emendamenti cruciali, salvando un decreto che poteva essere messo sotto (la maggioranza, alla fine, è stata di una cinquantina di voti, per cui chi non c’era ha davvero fatto la differenza).
Questa è la notizia.
Ne seguono una domanda e una constatazione. La constatazione è che questa notizia non è esistita sui maggiori quotidiani: l’ho pescata sul Manifesto e su qualche giornale di destra che l’ha giustamente usata per coprire di fango la sinistra. La domanda è: come sarà mai possibile liberare questo paese, se il 25% dell'opposizione (e parecchi cronisti parlamentari degli stessi giornali che il nano alfa definisce "farabutti") è a libro paga del capo della maggioranza?

martedì 29 settembre 2009

Lost in woods

Ma insomma, non interessa a nessuno sapere come è andata a finire l’avventurosa corsa del Gattopuzzo nei boschi di Sua Maestà Elizabeth?
E io ve lo dico lo stesso. Con una notizia buona, almeno per me, che già avrete intuito: scrivo, ergo sum (vivo)! E non sto nemmeno granché acciaccato… Ah, le infinite risorse della stirpe dei gattopuzzi, ormai ridotti ad un solo esemplare eccetera eccetera. Del resto, com’è che recita la presentazione del GPZ in questo blog? "[…] Il Gattopuzzo è un animale un po' puzzola e un po' faina, una creatura dei boschi che si è urbanizzata. Uno spirito vagabondo […]. Sa mimetizzarsi molto bene nell'ambiente urbano, ma in fondo all'anima rimane uno spirito selvatico".
E allora c’era da aspettarselo, che nella selva lo spirito silvestre che muove il Gattopuzzo lo avrebbe preservato e conservato.
Lo stesso non vale per Mustafà, che in realtà si chiama Feisal e non è libanese ma arabo di Ryad.
Mustafà-Feisal, che è alto e in evidente soprappeso, fuma un pacchetto abbondante di sigarette al giorno, beve come un cammello e tutte le mattine si presentava al corso con non meno di due ore di ritardo, gli occhi rossi, la barba lunga e l’aspetto molto stropicciato. Cosa facesse la notte, in quel posto desolato e remoto, per me è un mistero. Io in realtà non avevo fatto molto caso a queste sue abitudini, diciamo così, un po’ in contrasto con l’immagine dell’atleta che pretendeva di essere. Però le abitudini sono subito saltate fuori a presentargli il conto, perché non abbiamo fatto in tempo ad imboccare la via del bosco che ho cominciato a sentire, alle mie spalle, un ansimare come di mantice sfiatato. Io andavo piano per due motivi, il primo essendo che la finlandese è spirito caritatevole e, avendo capito con chi aveva a che fare, aveva rinunciato all’allenamento veloce, e il secondo che io, veloce, proprio non sarei stato capace di andare. Andavo piano, sì, ma Feisal sembrava lo stesso che stesse faticando a trattenere l’anima tra i denti. Uno si immagina un orgoglioso osservante fedele musulmano mondo dalle zozzerie che ti minano il fisico, così come prescrive Mohamed (sempre sia gloria al nome suo), e invece questo qui era tutto intossicato e grigio in faccia e pure quando sudava dava l’idea di star secernendo qualcosa di malsano. Fatto un mezzo chilometro, la più che caritatevole Mareit decide per una sosta, con la scusa di dover decidere che direzione prendere. Con il senso dell’orientamento che contraddistingue la razza dei Gattopuzzi (ormai limitati nella speciazione ad un solo esemplare eccetera), io sentenzio che it’s late, and if we don’t want to stay too long in the woods we should go left, because that path is clearly a small ring that will lead us back to the hotel. Ottenuto il consenso generale, prendiamo quindi a sinistra ormai camminando, la maratona boschiva trasformata in passeggiata da casa di riposo per non ammazzare anzitempo il probo suddito di re Fahd. L’orgoglio dell’Islam continuava però a dare segni di imminente soffocamento, per cui, non volendo dannarci in eterno provocando la prematura ascesa in cielo di un probabile futuro santo imam, procedevamo con andatura da ottuagenari, fingendo di essere incantati e rapiti dalla bellezza dei paesaggi per non metterlo troppo a disagio. E i paesaggi belli lo erano davvero: castagni, querce , faggi, tutti i colori dell’autunno, le sfumature dal giallo al rosso acceso, un silenzio cosmico interrotto solo da cinguetti e fruscii di foglie smosse nel sottobosco da una quantità stupefacente di leprotti che si aggiravano indisturbati in quel paradiso silvestre. E ogni tanto qualche casetta qua e una là che non solo non davano nessun fastidio, ma parevano quelle degli hobbit e avevi l’impressione che se bussavi si sarebbe affacciato Bilbo Baggins ad offrirti una fetta smisurata di torta di mele.

E invece non c’era anima viva, dal che si arguiva che ad abitare quelle dimore dovevano essere gli sfuggenti elfi, che senza dubbio ci stavano osservando nascosti sotto il nostro naso eppure invisibili alla gente grossolana come noi (la gente grossa, ci chiamano loro). Perso nelle fantasticherie, ogni tanto il fischio allarmante che scaturiva dai polmoni di Feisal mi riportava alla realtà, non essendoci nell’epopea del Signore degli Anelli alcun treno a cui attribuire un siffatto suono, così da poterlo inglobare nella mia fantasia. Oddio, volendo ci sarebbero stati i draghi, ma quelli mi avrebbero rovinato la pace interiore che lo spettacolo della natura mi ispirava, e avevo deciso di far finta che non esistessero (far finta… esistessero… anche il mio stato mentale non doveva essere proprio del tutto alieno da alterazioni).
Fantastica che ti fantastica, seguivamo quasi in silenzio questo public footpath le cui indicazioni erano un intrico di frecce che puntavano pressoché ovunque: a destra, a sinistra, a destra e sinistra insieme e una perfino verso l’alto, prova evidente che il footpath era stato in effetti pensato per essere percorso anche a dorso di drago. Specie della quale due cuccioli (ma forse erano orchetti) in forma di molossi si sono festosamente parati davanti ai nostri occhi quando, non si quando non si sa come, ci siamo ritrovati a calcare la morbida erbetta del giardino di una villa, deserta pure quella.
Segue la scena della nostra precipitosa e velocissima retromarcia, con momentanea incuria delle condizioni di salute del sublime principe del regno di Saud. Di nuovo ci ritroviamo nel bosco, e di nuovo attraversiamo il borghetto degli hobbit, altro non sapendo fare se non tornare indietro. Il buio avanza e si sa, in quelle lande la notte uno può incontrare le Mortombre e chissà quali altre creature demoniache, per cui non è prudente (e soprattutto è scomodo) decidere di passare la notte nei boschi, al freddo, a digiuno e senza materasso quando un paio di chilometri più in là – solo a sapere dove, porca putt… - c’è l’albergo che ti serve la pappa, il sidro e ti fa dormire sotto le calde coperte dopo una corroborante doccia. Alla fine Mareit ha l’illuminazione, e decide di bussare alla porta di una delle casette. Al che, non so perché, la scena mi è cambiata e al posto del Signore degli Anelli mi sono ritrovato nel mondo di Hansel e Gretel, improvvisamente certo che quella casetta fosse di marzapane e ne sarebbe uscita una vecchina che era in realtà una perfida strega che si era già mangiata tutti i vicini di casa, il che spiegherebbe perché lì intorno c’erano tante case, ma non anima viva.
E invece, dopo una lunga attesa, ne è uscito un signore inglese, ma di un inglese che voi non avete idea. Non sto nemmeno a descriverlo: pensate a un inglese, non uno qualsiasi ma l’ur – inglese, l’archetipo, l’idea platonica di inglese, e quello era lui. Che, molto, gentilmente, ci ha fatto presente che: 1) avevamo scelto il sentiero sbagliato, perché se volevamo tornare in albergo dovevamo prendere a destra, non a sinistra, e 2) avevamo fatto talmente tanta strada in quel bosco che a tornare indietro ci avremmo messo non meno di una mezz’ora abbondante, col buio che avanzava.
E così è stato: uscimmo a riveder le stelle, per dirla con il Poeta, quando le stelle in cielo c’erano quasi per davvero, dopo due ore di vagabondaggio silvestre, con il povero Feisal ormai incapace perfino di lamentarsi e talmente grigio in faccia da essergli passata pure la voglia di fumare.
La sera, al bar, dopo una cena abbondante, l’ho trovato con in mano una bottiglia di sidro e - ovviamente! - una sigaretta in bocca, felice come uno scampato da Pearl Harbour, e quando gli ho fatto - Feisal, if we want to go again tomorrow, it may be better if you smoke less - lui mi fa - No, no… the problem, today, was that I am a little tired… you know, the jet lag…
Ma un buon musulmano, oltre che dal bere e dal fumare, non dovrebbe astenersi anche dalle cazzate?

martedì 22 settembre 2009

Il talento del Gattopuzzo

Era passato un po' di tempo dall'ultima volta che il Gatopuzzo aveva varcato le patrie frontiere, per cui capirete che non senza trepidazione ho intrapreso questa nuova trasferta in terra di Albione.
Tre anni fa il bilancio fu insuperabile, tra gag piu' o meno (in)volontarie e duelli rusticani all'ultimo bicchiere di cabernet col professore di finanza; anche l'anno scorso non ando' male, con la corsa dei kart (adegutamente documentata qui) e dieci giorni di uscite a teatro e cene di gala, con la corsa delle scimmie a fare da gran finale. Stavolta l'uscita si e' presentata subito in tono minore: invece che a Londra, mi hanno spedito in questa amena campagna inglese tanto poetica, piena solo di silenzi e di fruscii di fronde, di cinguettii e di squittii, di boschi folti che a inoltrarsi un po' uno pensa di poter incontrare Gandalf e con lui tutta la Compagnia dell'Anello. Insomma, Wotton House: una specie di carcere soft dove, finite le ore di lezione, uno davvero rischia il suicidio per noia. Figuratevi che per la disperazione oggi pomeriggio mi sono messo le scarpe da ginnastica e, contravvenendo alla regola aurea a cui ho consacrato quarantaquattro anni di orgogliosa sedentarieta', sono andato a correre tra sentieri, prati e boschi.
E qui ho avuto la prova che la classe, davvero, non e' acqua, e il talento del Gattopuzzo per i guai puo' al massimo appennicarsi, ma eclissarsi giammai.
Uscendo dalla corte della dimora che potete ammirare in foto
e che ci ospita, intravedo la signora finlandese che segue il corso insieme a me in tenuta analoga alla mia ma piu' figa, e da tutt'altra parte indirizzata: alzo il braccio in segno di saluto e la abbandono ai sentieri suoi. Avevo gia' avuto modo di incontrarla ieri sera, sempre bardata per il cimento podistico, mentre io meno pretenziosamente passeggiavo per prati e boschi e rientravo precipitosamente all'apparire minaccioso e ululante di un pastore tedesco e altri due orchi (di razza non identificata per eccesso di velocita' di fuga). Avevo avuto modo di ammirare l'incedere fiacco della madama, nonche' la brevita' della performance, che mi aveva fatto gonogolare al pensiero di non essere l'unico a pretendere di chiamare jogging quel penoso trascinarsi in giro in mutandoni.
Schivati i cani, a cena me la ritrovo accanto.
- Hi Maurizio, I saw you going out for jogging, before dinner...
- Oh, yes... I had a very pleasant trip between fieds and woods, it was wonderful (se e' detto bene non lo so, ma questo e' l'inglese che parlo io e questo le ho detto. E comunque lei ha capito).
- I ran in the courtyard, instead... I had fear to go alone in the woods... But it was so boring running in a ring...
E qui che poteva combinare il Gattopuzzo? Per generosita', certo... E un po' per vanagloria, ma diciamole queste cose: - Oh, Maria, don't worry... If you want, tomorrow we can go together!
- Really? You are very kind! At six o'clock?
- At six o'clock.
- I am very happy about this, you know, I have to respect my training program, otherwise I will not be allowed to run my next Marathon....
Gelo per la schiena: - Marathon?
- Oh, yes, next month, in Helsinki, I will run with my team, We do it every year!
- (tra me e me) ma porca puttana, va bene che me la sono andata a cercare, ma proprio una maratoneta mi doveva capitare? A me, che se corro mezz'ora di fila gia' grido al miracolo... But... Maria, yersterday I saw you running very, very slow...
- Yes, it is a part of my training program, but don't worry, tomorrow I will start the new part, in which I have to run very very fast!
- (Ah, allora... )
E mentre sacramentavo in sanscrito, ecco che si aggiunge il libanese, li', come minchia si chiama, vabbe', facciamo Mustafa': - wonderful! I am used to run every day! May I come with you?
E all'unisono, ma con espressioni opposte (uno afflitto, l'altra esultante), io e Maria: - of course, Mustafa', of course!... (il punto esclamativo e' della finlandese, i puntini sono miei).
E adesso eccomi qui, come Galois la notte prima del duello, a scrivere febbrilmente affinche' resti di me quello che ho fatto, quello che ho pensato... E chissa' perche' a me non viene fuori una emerita ceppa, mentre quello li' scrisse un trattato di matematica superiore in una notte, prima di accomiatarsi da questa valle di lacrime per opera di un marito geloso, o forse dei servizi segreti, insomma almeno in modo romantico, cosa che non tocchera' a me, precocemente stroncato da due podisti forsennati in mezzo ai boschi inglesi, lontano da casa, dalla mia cucciolotta con tutti gli annessi e connessi... Ma non vi fa un po' pena il Gattopuzzo? E pero', se contro ogni pronostico avessi a sopravvivere, me lo fate il favore di rintuzzarmi, da oggi in poi, ogni volta che faccio pipi' fuori dal vasino?

martedì 15 settembre 2009

Chi va a casa di chi

Questo avvenimento dice tutto sulla carità pelosa di quanti hanno voluto dare alla guerra in Iraq la patina nobile dell’abbattimento del tiranno. La gratitudine di quel popolo per il nostro intervento non richiesto si può misurare dai festeggiamenti che riservano a uno che il nostro commander in chief lo prese a scarpate.
Si è trattato di una guerra di invasione che ha fatto centinaia di migliaia di morti iracheni (quanti, precisamente, non lo sapremo mai), ha reso quel paese un campo di battaglia tra opposte fazioni estremiste, ha prodotto tortura e dolore, ha distrutto i reperti della civiltà più antica di cui si abbia memoria storica e ci ha attirato addosso l’odio furibondo di qualche miliardo di esseri umani che hanno idee parecchio diverse dalle nostre su come (loro) dovrebbero condurre le proprie vite e i propri affari di governo, e non gradiscono che si sia noi a pretendere non solo di dirgli cosa è bene, ma addirittura di imporglielo.
Questo odio ha permesso a personaggi sinistri e macabri di affermarsi un po’ ovunque nel mondo islamico, per lo stesso meccanismo che ha portato qui da noi alle vittorie elettorali di Bush: se l’Altro (loro per noi, noi per loro) è cattivo, allora dobbiamo farci guidare da uno più cattivo di lui. Eventualmente dando un’aggiustatina ai risultati elettorali, se non sono proprio favorevoli. Ahmadinejad? E perché, Bush che fece con Gore? Solo che il primo è un tiranno, del secondo dire questo pare non sia lecito. Mah.
Adesso che la balla dell’esportazione della democrazia non è più spendibile, dato che l’unica cosa che abbiamo esportato è stata la vergogna delle torture e un numero di morti ammazzati infinitamente superiore anche agli stupefacenti record di Saddam; adesso che nessuno può più permettersi di raccontare cazzate su cosa siamo veramente andati a fare laggiù - tutti e non solo gli americani, perché Nassirya non è solo il posto del martirio di quei poverini che ci hanno lasciato le penne, è soprattutto il suolo sotto cui stanno gli idrocarburi acquistati dall’ENI; adesso che delle famose (ma soprattutto fumose) armi di distruzione di massa non è stato trovato nemmeno un flacone di virus del raffreddore; adesso che tutto questo è acquisito, lo sappiamo, è alle spalle, non resta più nessuna scusa a chi si ostina a difendere questa follia. Mi disturba parecchio vedere che in realtà questa gente non ne ha nessun bisogno: candidi, ammettono che sì, probabilmente andare laggiù è stato un errore, ma mica perché era sbagliato in linea di principio; no, anzi, l’idea era giusta ma il problema sono loro, gli iracheni e gli arabi in generale, animali ottusi e riottosi come muli recalcitranti che non hanno saputo apprezzare nulla delle meraviglie che gli avevamo graziosamente recato in dono. Perle ai porci, questa gente meglio lasciarla a casa sua e farli scannare tra loro, e anzi chiudiamoci pure noi dentro casa nostra e se provano ad avvicinarsi lasciamoli affondare in mare, o diamoli in pasto a Gheddafi, che è come loro e sa come trattarli. Salvo però andarci, noi da loro, a prenderci il petrolio. Con quattro soldi quando va bene, con la forza quando conviene.

martedì 8 settembre 2009

Leggere fino in fondo? Se proprio devo...

Vi ho già elargito due post, ma non vi ho ancora detto che il lungo silenzio era dovuto alle ferie... Vabbè, non ci voleva la palla di cristallo per capirlo. Ferie, stravaccamento, e quindi goduriose, goduriosissime letture... Beh, quasi. Prendiamo questo romanzo di Gibson e Sterling, per esempio, che segna il ritorno al mio primo amore, la fantascienza (anche se questo, in realtà, fantascienza non è).More about La macchina della realtà
Erano... meglio che non lo dico quanti anni erano che lo volevo leggere, sennò mi prende la vertigine da vecchiaia. Era tanto, e tanta è stata la delusione. Già il titolo italiano è un crimine contro l'umanità (la macchina a cui si fa riferimento è the difference engine, il motore differenziale, e questo è il titolo dell'originale).
L'idea che regge l'intreccio è intrigante, ma questi due forse avrebbero fatto meglio a scrivere un trattatello di filosofia della storia, che se pure viene noioso si può sempre dire che dato il tema era inevitabile. E qual è questo tema? E' presto detto: la storia non è una successione ordinata di eventi che si compongono in modo necessario, nessuno dei quali potrebbe scambiarsi con quelli che lo precedono o lo seguono, pena il crollo di tutta l'impalcatura; no, la storia è un fiume turbolento, che scorre sì in un certo verso, ma è pieno di gorghi in cui gli accadimenti collassano e possono generare corsi alternativi. Il computer avrebbe potuto essere costruito nel diciottesimo secolo, Byron avrebbe potuto fare il primo ministro invece che il letterato, Marx trovare fortuna in America istituendo una comune a Manhattan e Gautier essere una specie di hacker a Parigi. Non è implausibile: Babbage aveva davvero progettato una macchina che non potè essere costruita, ma che, realizzata in via sperimentale negli anni ottanta del novecento, si rivelò essere un computer funzionante. E quanto a Byron, a Marx, Gautier e compagnia, sbagliano quelli che cercano di rintracciare nel romanzo un filo conduttore che ne spieghi la sorte: è la turbolenza, la casualità selvaggia della storia a spiegarne la posizione e le azioni, nient'altro. Per noi sono stati quello che sono stati, ma in modo altrettanto plausibile avrebbero potuto essere altro, e la stessa storia accaduta essere un'altra. Insomma, non sono propriamente dei marxisti gli autori, e nel caso uno non capisca le loro tendenze si danno molto da fare per dipingere Marx e seguaci come un branco di scimmie prive di qualsiasi barlume di intelligenza e di umanità. E passi pure questa caricatura, ma se almeno il tutto fosse ben scritto... Invece è faticoso, farraginoso, pesante al punto che penso non si siano potuti divertire nemmeno loro, a scriverlo. Uno di quei libri che, anziché farti palpitare per sapere come va a finire, ti tiene avvinto alla pagina per senso del dovere: capisci che c'è qualcosa che vale e ti imponi di finirlo, ma in fondo ne faresti volentieri a meno.

lunedì 7 settembre 2009

Sindrome cinese



In Cina volevano chiudere internet prima delle Olimpiadi e anche adesso provano a mettere il guinzaglio ai navigatori. Con qualche successo, se è vero che tempo fa pure Yahoo alla fine cedette e fornì alle ruvide autorità cinesi nomi e cognomi di blogger e altri pericolosi controrivoluzionari, che pagarono molto cara la licenza di critica al regime che si erano autoattribuiti. Anche Ahmadinejad non scherza, con risultati però meno spettacolari: le immagini della repressione post truffa elettorale degli Ayatollah hanno fatto il giro del mondo, evidentemente i mullah non sono smanati come i capitalisti di stato mandarini, a imbrigliare le rotte dei naviganti telematici. Di quello che combina Gheddafi non so i particolari, ma viste le affinità esibite e riesibite con il nostro nano alfa – a cui ormai è rimasto solo il libico a cui dare pacche sulle spalle – immagino che non disdegni neppure lui l’arma sempre seducente della censura.
Il Berlusca sta compiendo la sua parabola: ha iniziato riversandoci addosso un fiume di parole che ha rincoglionito l’ottanta percento degli italiani, poi è passato alle urla per impedire che si sentisse anche la voce degli altri e adesso, finalmente, arriva alla pratica che più di tutte rivela il suo concetto del mondo: il manganello. Finora mediatico, almeno per quanto ne so io, ma non mi stupirei se si venisse a sapere che qualcuno ha assaggiato anche quello vero, e non per semplice esagerazione di qualche sodale troppo zelante.
Come i capitalisti di stato cinesi, Silvio nostro ha potere assoluto su tutti gli affari che si trattano e si concludono in questo paese: che si tratti di televisioni o di assicurazioni, di banche o di palazzine, lo zampino suo possiamo star sicuri che lo troviamo sempre ben intinto nel sugo. Una volta disse che il conflitto di interessi non esisteva, perché lui sarebbe uscito dall’aula ogni volta che si fosse votato su temi che lo riguardavano. L’avesse fatto davvero, farlo presidente del consiglio si sarebbe rivelata l’arma migliore per togliercelo dalle scatole: non avrebbe potuto decidere nemmeno quali merendine mettere nel cestino dei bambini. Purtroppo non l’ha fatto, mica è scemo. E, sempre in omaggio alla tradizione mandarina, adesso si è messo a menare legnate contro quel minimo di stampa semilibera che abbiamo ancora in questo paese. Denuncia gente che gli fa delle domande, ne vuole portare in tribunale altra per fargli rimangiare di aver detto che non gli si rizza, quando il primo a dirlo fu Bossi - “Silvio ha la sua età…” - seguito a ruota proprio da Feltri – “dopo l’operazione che ha subito… basterebbe che esibisse il certificato medico…”.
Rispetto all’universo totalitario cinese tutto questo manca di Pathos, sa più di commedia all’italiana che di dittatura, ma conviene non fare troppo affidamento su queste considerazioni: se gli riesce di fare in modo che i quotidiani (e soprattutto i TG) italiani non possano più riportare i titoli di quelli stranieri da lui ritenuti offensivi, l’isolamento del paese è bello che compiuto. Che io o voi siamo capaci di navigare in rete e di leggere le notizie in inglese dove ci pare, a lui non gliene frega quasi niente: quanti siamo noi? In Italia a saper usare un PC è ancora una minoranza di persone drammaticamente esigua, mai ingigantita da quelle “tre i” (inglese, internet, impresa) che rappresentarono, a suo tempo, il suo slogan ultratruffaldino. E in questa minoranza sono ancora meno quelli che masticano uno straccio di lingua, che d’altra parte ai più non servirebbe, perché i giochi in rete e i siti porno si trovano abbondantemente anche in italiano.
La strategia cinese, pure all’amatriciana come la sanno cucinare lui e l’impareggiabile Ghedini, in un paese di semianalfabeti del tutto disinteressati alla tutela dei propri spazi informativi può riuscire ancora meglio che in Cina. Poi, a quel punto, sarebbe inevitabile per il nostro cercare di chiudere la bocca anche alle pulci come me e come voi: spingersi sempre un pochino più in là, non accontentarsi mai, è nella natura del soggetto, e non ci si può illudere che non ci proverebbe. Probabilmente con effetti tragicomici, ma volete scommettere che, magari anche solo per educarne cento al prezzo di una vittima sola, riuscirebbe comunque a far male a qualcuno?

venerdì 4 settembre 2009

Ho perso le parole


Da bambino ero un asso con la penna, o almeno così mi hanno fatto sempre credere i miei insegnanti. Il daimon comunque non ce l’avevo, altrimenti adesso starei scrivendo altro che questi velleitari post destinati più che altro all’onanismo telematico. Com’è come non è, però, le parole le sapevo trovare, e mettevo giù tanti bei temini che invariabilmente mi guadagnavano l’agognato riconoscimento di “bambino molto maturo rispetto alla sua età”. Che, a ripensarci oggi, in fondo voleva dire nient’altro che “saccente”. Per fortuna, più che essere farina del mio sacco, quella roba derivava per un buon novanta percento dal saccheggio, ancorché del tutto inconsapevole, del giornale del nonno, con assunzione piuttosto acritica di giudizi di opinionisti di altri tempi e relativo moralismo.
Passando oltre la feroce autocritica del blogger da cucciolo, mi preme dire che questo fatto di saper trovare le parole mi ha accompagnato sempre: magari ciò che scrivo non sarà piacevolissimo da leggere, ma è preciso.
Ma… Eh, sì, adesso devo dire “ma”.
Da un po’ di tempo io le parole non le trovo più. Non mi vengono, punto e basta. Né quelle ispirate per uno degli infiniti incipit al mio romanzo che un giorno o l’altro sfonderà trionfalmente il muro di pagina dieci, né quelle – che dovrebbero, per l’appunto, almeno essere precise – per esprimere non dico il mio sentire, ma neppure il mio pensiero, durante questo periodo buio della storia di noi bipedi.
Ma come si fa a trovare le parole per penetrare la corazza di gente che se gli parli del razzismo che ormai imperversa, dell’omofobia, del conformismo abietto che tutti ormai sembrano praticare, ti guarda come fossi scemo e ti risponde “embè?”.
E fosse solo questo: ribattono pure colpo su colpo con argomenti che sembrano surreali, e che però per loro devono essere verità lapalissiane, data la tracotanza con cui pretendono di imporli. Gli immigrati? Ok a ributtarli in mare, che da noi vengono a rubare e stuprare; gli omosessuali? I froci, vorrai dire… Ah, vabbè…; e la corruzione… sì sì, però quando c’era Craxi i soldi giravano e la gente era felice, guarda che hanno combinato con Mani Pulite. E via sragionando. Con la sicumera di chi sa di essere maggioranza, e da questo trae legittimazione: siamo in tanti, siamo nel giusto, sei tu quello sbagliato. Non c’è contatto emotivo, quello che dico io non li tocca neppure e quello che dicono loro a me fa l’effetto di una salva di randellate, mi offende, mi indigna, mi provoca una rabbia che mi obnubila la mente e mi fa perdere il lume della ragione.
Le parole servono per comunicare, ma per fare questo bisogna volerlo in due. Loro non l’hanno voluto mai. Io non lo voglio più.
Per questo, di fronte a questo, mi sento sopraffatto e la voglia di confrontarmi non mi sostiene più.
Non so quando è successo, ma alla fine è andata così: ho perso le parole.

lunedì 17 agosto 2009

Un pessimo Paragone

In questa giornata torrida di un mese torrido di un’estate torrida, con Roma deserta e desolata sotto il sole che scioglie l’asfalto e il Gattopuzzo a tirare con i denti fino all’agognata partenza per le ferie, bisogna darsi un compito facile, altrimenti anche scrivere diventa una tortura. Insomma, il classico tiro a segno sulla croce rossa, che è sleale ma oggi è l’unica cosa che mi riesce di fare.
Meno male che c’è la razza padana, che in questi casi si presta davvero a meraviglia alla bisogna.
Dunque, Libero , degno giornale di cotanto popolo, pubblica un articolo a firma Gianluigi Paragone che non si può leggere in chiaro (sembra incredibile, ma evidentemente c’è qualcuno disposto a pagare per leggere questi qui) e che reca il titolo "Ridicola sinistra se ora gioca con la gru". Chi fosse interessato, comunque, lo può trovare nella rassegna stampa on line del Senato.
Il sofisticato ragionamento di questo raffinato intellettuale si articola secondo il seguente iter logico: atteso che i lavoratori della INSSE hanno vinto la loro battaglia a difesa del posto di lavoro issandosi su un gru e restandoci finché qualcuno non si è fatto carico del loro problema; dato che costoro hanno già trovato imitatori nei vigilantes che si sono accampati sul Colosseo e in un altro combattivo gruppuscolo di operai di una fabbrica laziale che sta chiudendo i battenti; accertato che la crisi è tutt’altro che finita e in autunno saranno migliaia le imprese che non riapriranno; date tutte queste premesse, ci aspetta verosimilmente un allarmante proliferare di queste iniziative pericolose per chi le mette in atto e socialmente dirompenti, perché sarà impossibile confezionare salvagente per tutti. E male fa il sindacato a rallegrarsi della vittoria di questi moderni stiliti, che rappresenta invece uno scavalcamento del sindacalismo.
Tutto questo può essere anche vero e anzi probabilmente lo è, ma le argomentazioni “ancillari” a questo filone argomentativo principale riescono contemporaneamente a far ridere per la pochezza e a far incazzare per la malefede. Unico dato positivo: adesso sappiamo che anche l’ottimismo d’ordinanza del valoroso manipolo dei giornali governativi registra qualche defezione, se un pasdaran come Paragone – già vice direttore di Libero, se non ricordo male, e ora ahimè del TG1, coi soldi nostri - si lascia sfuggire che “Centinaia e centinaia di lavoratori si ritroveranno a casa, alcuni scoperti dagli ammortizzatori […]”, alla faccia degli editti comunicativi del Berlusca che ancora va apparecchiando a chi ci vuole credere la frottola - di indubbio impatto mediatico, nel paese dei proclami - che “nessuno sarà lasciato indietro”.
Il nostro bravo opinionista si lascia andare ad una autentica intemerata: “Mi viene davvero difficile pensare che il sindacato […] possa davvero esultare per questa ‘nuova protesta di lotta non violenta’. Non violenta un corno! Mettere a repentaglio la vita è un gioco al ribasso. Aggiungo, squallido. […] Questo è un ricatto.” Il perché? Ma è ovvio: “Se un imprenditore chiude non lo fa mai a cuor leggero. Dobbiamo uscire dallo schema culturale cui ci spingono i sindacati e certe penne pseudo-riformiste (complice il balbettamento della
Confindustria) per cui i lavoratori sono sempre eroi mentre gli imprenditori, egoisti e carogne. […] A nessuno fa piacere mettere la gente per strada. […] chi chiuderà non lo farà comunque a cuor leggero
”.
Insomma, indulgenza per gli imprenditori, che hanno un cuore anche loro. Io personalmente non ho motivo di dubitarne, ma fa un po’ strano sentire parole così toccanti, al limite dell’intenerimento, dalle stesse bocche che pochi giorni fa hanno vomitato contumelie in grande copia sulle donne tutte, che invece un cuore non ce l’hanno e quando ricorrono all’aborto lo fanno con evidente compiacimento, tanto che ora addirittura vogliono rendere più dilettevole la pratica risolvendola con una caramella chimica che le sottrarrà, fellone, anche al giusto – benché minimo – castigo che è il ferro del chirurgo, unico residuo dei rischi mortali del tempo che fu. C’entra come i cavoli a merenda? Mica tanto: la lista dei condannati e degli assolti la dice tutta sulla scala dei valori di questa gente, su chi siano secondo loro i buoni e i cattivi, i soggetti da tutelare e quelli da mettere sotto schiaffo.
Ma il meglio arriva quando Paragone chiama in causa la cultura, anzi: nientemeno che la letteratura, benché di stampo scientifico-filosofico. E’ un’esposizione non meno che azzardata, dato il rapporto non proprio amichevole che notoriamente intercorre tra il popolo padano e tutto ciò che l’ingegno umano ha affidato alla carta stampata: “Secondo una certa letteratura l’imprenditore pensa solo al suo portafoglio, a danno dei lavoratori. Questa letteratura si incastra con il pensiero diffuso a sinistra[…]”.
Questa “certa letteratura” tanto cara alla sinistra, come la chiama nella foga della pugna il generoso e temerario Paragone, sta scritta nelle primissime pagine di tutti i libri di economia, da quelli dei ragionieri fino ai trattati dei premi Nobel. E c'è chi ne fa il motore stesso dell'economia, in particolare quelle teorie e quei sistemi di pensiero che hanno sempre rivendicato il diritto dell’imprenditore, per non dire il dovere, a perseguire il massimo profitto, e nient’altro che quello; o, se non lo hanno rivendicato, lo hanno comunque sempre accettato come dato di fatto, come premessa alla base di qualsiasi teoria: l’imprenditore ha un capitale e vuole accrescerlo. Punto.
Questo prima dell’avvento del pensiero di Paragone, ovviamente.
La teoria economica, così rudemente sconfessata, torna però buona e utile qualche riga dopo: “[…] non è esponendo il proprio corpo a un pericolo che si terranno in vita aziende decotte. Le aziende nascono e muoiono in virtù di diversi fattori, il più importante dei quali è l’incontro tra domanda e offerta[…]”. Meno male, almeno una delle leggi fondamentali l’abbiamo salvata.
Ma il sollievo dura poco, pochissimo, che ci aspetta la filippica finale: “Certo, è difficile da accettare in un Paese che generò l’equivoco già dall’articolo uno della Costituzione: l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Un equivoco dogmatico che ha attrezzato una sociologia del lavoro, un diritto del lavoro una politica del lavoro, insomma un armamentario ideologico base di tanti equivoci nella dialettica tra industriali e lavoratori. L’icona del lavoratore che si immola su una torre o una gru o sul tetto rischia di essere l’ultimo abbaglio di una sinistra e di un sindacato in profonda crisi di identità. Esattamente come era stata la battaglia sui precari, dei quali il simbolo fu l’operatore del call center. Non c’era dibattito — ricorderete - in cui non usciva fuori il telefonista come caso emblematico del precariato. I dati elettorali e la segmentazione avrebbero dimostrato che per i giovani non esisteva nessun dramma precariato; avevano capito le opportunità di una equilibrata flessibilità[…]”.
Dice che l’antiberlusconismo non paga, che con gli avversari bisogna dialogare fino a trovare un punto d’intesa. Ma con uno così, uno che ad un certo punto dice pure chiaro e tondo che le proteste degli operai sono destinate a diventare più che altro un problema di ordine pubblico; con uno come questo, e soprattutto con quelli per cui lui scrive, mi sapete dire che cosa potrò mai avere a che spartire, a parte la disgrazia di essere nati sullo stesso suolo?

martedì 11 agosto 2009

Mille città

Ogni giorno attraversiamo universi che si compenetrano con il nostro, e non li vediamo.
Io vado al lavoro a piedi passando in rassegna quotidiana meraviglie che i più non vedranno nell’arco di una vita: San Pietro, Castel Sant’Angelo, Piazza Navona, il Pantheon, Fontana di Trevi. Se cambio itinerario: Campo de’ Fiori, i vicoli del Ghetto. E sempre mille e mille angoli di geenna, tutti in piena luce, in questa città odorosa di paradiso e dell’incenso di millanta chiese.
Appena uscito di casa vedo l’anziano stracciato e maleodorante in piazza Pia, che rumina borborigmi che giungono all’orecchio come un rombo di tuono lontano e ininterrotto, malevolo forse, non si capisce, non potrò mai dirlo. Poi attraverso il ponte, su cui implora silenziosa la vecchia zingara che elemosina prostrata a toccar terra con la fronte, con davanti l’immagine di un santino. A via della Scrofa (quando devio da quella parte) c’è un signore dalla gran barba bianca e dall’età incognita che ti sorride anche se non gli lasci niente. E tanti, tanti altri: Angelo, barba lunga e bianca pure lui, da sempre a domicilio variabile tra via dei Serpenti e via Nazionale, quasi sempre calmo, a volte rissoso che è meglio se passi avanti e fai finta di non averlo visto; una donna giovane che ha sempre su una faccia amara e una volta sì e una no è ubriaca, spesso sporca, ma i capelli lunghissimi e ricci li tiene sempre in ordine e puliti: come, dove se li lavi non è dato sapere; un tizio che sembra pakistano o indiano e vive sdraiato alla fine di via del Plebiscito, sempre sporco, non capisci se non parla perché non sa la lingua o perché è via di testa, o perché non ne ha voglia e basta. Zingare che vagano, di ogni età, disperati giovani e di mezza età, un paio di signori anziani che si aggirano con sulla pelle le stimmate dell’umiliazione: devono aver deragliato proprio verso la fine, adesso che non hanno più la forza di reagire, dopo una vita borghese e probabilmente ristretta ma sempre dignitosa. A Largo Argentina un’africana in carne come una mami che ride sempre di cuore con al collo un cartello “sono povera ma felice”, davanti a Feltrinelli una tizia magrissima ondeggia sulle anche e stride le arie di un’opera sconosciuta torturando le corde vocali ad emettere un suono di violino scordato che maciulla i timpani anche all’analfabeta musicale che sono io. Poi quello che l’altro giorno mi ha fregato, il professionista dello sguardo vacuo che pare non ti guardi e a cui la mano trema improvvisa proprio mentre stai per passare oltre, e ti spinge a pensare – mamma mia, ma questo sta male per davvero! –, tanto che mi sono trovato l’unica moneta che avevo in tasca, due euro, e glieli ho dati, e solo mentre glieli davo si è tradito, afferrandoli rapace e quasi senza ringraziare, ma ormai...
Vivono in un’altra città. Calchiamo le stesse strade, incrociamo tutti i giorni i nostri passi, ma viviamo in due città diversissime e remote l’una all’altra. Dov’è che abitano loro? Abitare non è stare: abiti se hai relazioni, se vivi i luoghi, se nell’impararli usi il corpo fino a trovare quelli che sembra che ti avvolgano e ti accolgano, se sai riconoscere quelli ostili e spigolosi, da cui stare alla larga. Questo popolo che guarda la città dal basso del selciato e dell’asfalto, che la setaccia alla ricerca di avanzi,di oggetti, di cibo e di elemosina, che la fruga e la perquisisce fin dentro l’immondizia, abita Roma molto più di quanto la potrò mai abitare io, che la percorro due volte al giorno attraversandone i pavimenti sporchi e sconnessi e il palcoscenici sontuosi come su un cuscino d’aria, senza mai toccarne realmente la carne e senza esserne toccato.
Non è la mia città, Roma. Ci piacciamo, ma non ci apparteniamo. Un giorno ci separeremo. Ma a tanti, anche romani, la materialità del suolo e dei luoghi sfugge ormai, sfuma e si dissolve nella rarefazione degli ambienti asettici in cui non si suda e non si rabbrividisce: uffici, case. In mezzo corrono percorsi come binari sospesi, che attraversiamo con in mano il giornale o pensando ad altri luoghi, altri spazi, ascoltando altri suoni che non quelli del mondo che preme intorno ai nostri passi.
C’è una città dei mendicanti, una città degli zingari, una dei banditi, una dei ragazzi, un’altra degli anziani e nessuno può dire quante altre: regni che condividono un territorio. Ognuno di noi può brevemente intravedere qualche reame confinante, dipende da quanto è fitta la nebbia che avvolge la città che abita.
A me è dato di scorgere, tutti i giorni, i confini della città dei mendicanti: è il reame più vicino a quello che abita la maggior parte di noi, si può anche visitare, e parecchi hanno finito per andarci ad abitare. Tra le tante città che si sovrappongono in quest’unica Roma è quella che più sta crescendo, e fa paura: gli si muove guerra, si dà la caccia ai suoi abitanti, li si porta via, lontano, solo per vederli di nuovo brulicare il giorno dopo, ancora intenti a cingere d’assedio la città che abitiamo noi e che la loro semplice presenza sempre più sfilaccia, rende opaca, meno vera. Ad essere sempre più vera è la città che abitano loro e che ora anche noi vediamo bene, con gli stracci e i cartoni a trasformare in casa ogni vicolo, ogni anfratto, ogni gradino in grado di offrire un riparo minimo.
Chi è andato a stare là vede questo mondo crescere e occupare gli stessi spazi di quello che gli si è dissolto intorno, esplora un universo nuovo, conosce cose che non credeva potessero coesistere nella città che già credeva di abitare.
Ma ci sono conoscenze che i più preferirebbero lasciare nell’oblio.

venerdì 31 luglio 2009

Luglio, again


Mario aveva un nome semplice e non era una persona banale. L’ho conosciuto poco, come si conoscono poco i familiari degli amici: il fratello più piccolo di un’amica lo conosci che tu sei adoloscente e lui ha dodici anni e poi lo vedi una, due volte l’anno fino a che ne ha più di trenta, non lo conosci ma lo hai visto crescere, mentre crescevi anche tu. Ciao Mario, come stai? E una battuta, una chiacchierata di pochi minuti, poi lui via, deve scappare, ha un impegno oppure ce l’hai tu, e del resto non sei andato a trovare lui ma sua sorella, l’amica: Mario ogni tanto pensi che sarebbe bello conoscerlo meglio, frequentarlo, con quel suo carattere franco e aperto, sempre di buon umore senza essere chiassoso: una persona luminosa. Ma non hai tempo tu, non ce l’ha lui, la vita ha scelto per noi percorsi paralleli che ogni tanto si incrociano, e niente più.
Mario ha centrato in pieno un paletto del guard rail, con la sua moto. Dieci centimetri a destra o a sinistra o sopra o sotto e non sarebbe successo niente, ma invece quei dieci centimetri non si sono spostati da nessuna parte. Non si è rotto niente Mario, è intatto perfino il cellulare: solo la sua testa è devastata. E ci ha messo un mese e mezzo a volare via, mentre intorno a lui apparecchiature ostinate gli ronzavano nelle orecchie una sinistra canzone che non poteva più ascoltare. Adesso Mario è andato, e anche questo luglio ha avuto il suo tributo. Lo salutiamo con alcuni versi di una vecchia, bellissima canzone di Iannacci che non pare scritta per lui, se non in certe parti. Ma quelle sono veramente belle: sono per te, Mario.

chi lo sa forse è giusto, forse è sbagliato
forse sarà destino
Mario, non ti resta che ascoltare
Mario, non c'è più la tua canzone
Mario, dicevi adesso io vado
ad aprire l'ultima porta
Mario, dicevi adesso io vado via
forse per l'ultima volta
dicevi adesso io vado, io vado
a dissolvermi in cometa,
quanto basta per non sentire più
il ritmo strano della vita […]
Mario, non ti resta che ascoltare
l'eco che hanno messo nel finale

mercoledì 29 luglio 2009

La scuola nuova

Ormai è sicuro: il prossimo ministro dell’Istruzione sarà Fiorello, con Max Giusti e Teo Teocoli come sottosegretari. Il primo con delega alle aree rurali, il secondo al gergo da curva sud, assurto agli onori di lingua nazionale grazie all’efficace pressing di politici di nuova leva come il già candidato sindaco a Firenze Giovanni Galli e di sempreverdi come l’onorevole Matteo Salvini. Quest’ultimo vorrebbe peraltro ampliare lo spettro delle nuove materie di insegnamento, inserendo nei programmi obbligatori del ministero i coretti da stadio e gli sfottò tra tifosi, espressione genuina delle nuove forme di comunicazione ampiamente sperimentate dai giovani e ingiustamente trascurate da una scuola paludata e troppo attaccata al proprio vuoto ritualismo linguistico.
La svolta si deve a Roberto Calderoli, che invocando l’esame in dialetto locale per gli aspiranti professori in trasferta ha sollevato – probabilmente senza volerlo – un caso ben più grande di lui (alcuni commentatori hanno notato che non ci vuole molto, a onor del vero).
Una volta accettato il principio, infatti, non c’è voluto molto per trarne le conseguenze: se un professore di Barletta che vuole insegnare a Belluno deve saper parlare il dialetto di quella zona, quanti dialetti dovrebbe saper parlare un dirigente scolastico regionale? E soprattutto, quanti ne dovrà parlare il ministro?
La logica ferrea che - come è giusto - governa implacabilmente le scelte delle nostre istituzioni non ha lasciato scampo: gli unici candidati veramente autorevoli per un incarico di questa delicatezza sono gli imitatori. E neanche tutti: a fronte dell’evidente improvvisa carenza di personale dirigenziale scolastico seguita all’adozione dei nuovi criteri di selezione, hanno provato in molti ad avanzare la propria candidatura, ovviamente subito respinta dalle inflessibili commissioni selezionatrici. Tra le vittime più illustri Fabio Fazio, che proditoriamente si era proposto come viceministro in virtù dei suoi lontani esordi nel mondo dello spettacolo e di una datatissima imitazione di mike Bongiorno; al popolare presentatore è stato fatto osservare che competenze di quel genere potevano al massimo tornargli utili per candidarsi a preside del liceo italo-americano, incarico per il quale erano però scaduti i termini di presentazione della domanda; avendo contestualmente ricevuto notifica della chiusura di Rai Tre per inosservanza linguistica (pare che in molti dei suoi personaggi di punta si sia riscontrata una eccessiva inclinazione alla calata vetero-sovietica, benché latente e non rilevabile a orecchio nudo), Fazio risulta ad oggi disoccupato. Stessa sorte per Neri Marcorè e Corrado Guzzanti, nonostante l’indiscutibile talento.
Non mancano, comunque, le sorprese e i ritorni: tra i nuovi provveditori agli studi troviamo il mitico Bagaglino al completo, da Gianfranco d’Angelo a Martufello passando per Aída Yéspica (che non parla dialetti ma ha un body language giudicato transanazionale quanto l’esperanto: per unanime decisione del consiglio dei ministri, sovrintenderà all’insegnamento nelle scuole tecniche professionali a prevalente presenza maschile, come quella per tornitore in fabbrichètta); una menzione speciale per Leo Gullotta, comunista e gay, e quindi candidato di bandiera in nome del pluralismo e della tolleranza. Nei ranghi più bassi della gerarchia spopolano applauditissime compagnie di giro, che mai avrebbero immaginato una simile – meritatissima, aggiungiamo noi - opportunità di diversificazione del loro core business: approdano alla dirigenza scolastica nei più prestigiosi licei della penisola mostri sacri del poliglottismo italico come Max Tortora, ma anche artisti della comunicazione dal talento cristallino come I Fichi d’India, che non parlano alcun dialetto ma hanno la rara abilità di infiltrare i loro motti di spirito nel linguaggio giovanile di tutte le regioni della penisola, raggiungendo l’obiettivo della parlata dialettale mediante il percorso inverso: sono i dialetti e i gerghi di branco a conformarsi alla loro lingua.
E mentre, in nome della meritocrazia, la discussione istituzionale verte ora sulla composizione delle commissioni e sui criteri di selezione da adottare in futuro (Salsomaggiore? Sanremo?), duole rilevare che c’è almeno un’ombra a oscurare la nitidezza cristallina di questo attesissimo provvedimento: è ancora incerto il ruolo di Pippo Franco. Impossibile nominarlo ministro, come il curriculum avrebbe voluto, per oggettiva scarsa capacità di calarsi in dialetti diversi dal suo, è però vero che l’uomo è uno dei padri nobili del filone culturale d’appartenenza dei neodirigenti scolastici; sembra quindi poco equo il proposito del presidente del consiglio, che intenderebbe affidargli una cabina di regia, manco fosse un Miccichè qualsiasi.
Sarebbe ancora lungo l’elenco dei candidati e dei prescelti, ma lo spazio tiranno ci impedisce di dare a tutti loro il giusto lustro; in chiusura, però, ci sia consentito di rendere il dovuto omaggio a quei grandi personaggi che purtroppo non sono più tra noi, e che una concezione elitaria e snobistica della cultura ha sempre escluso dai ruoli di responsabilità a cui avrebbero avuto pieno titolo di accedere: non facciamo nomi, tanto l’elenco sarebbe lungo, ma una riflessione è d’obbligo: che meravigliosi ministri sarebbero stati un Alighiero Noschese, un Gigi Sabani, ma anche l’indimenticato Franco Lechner, il grande Bombolo: l’onesto faticatore dello spettacolo Calderoli continua indefessamente ad imitarli, ma si sa che far ridere è sempre stato più difficile che far piangere. Che a sua volta è più difficile del far incazzare. Che è l’unica cosa che lui sa fare.

domenica 19 luglio 2009

Luglio

Ve l’avevo già raccontato, che i gattopuzzi hanno – come tutti – un corpo astrale che a volte prende iniziative un po’ troppo autonome.
Stanotte è successo di nuovo, ed era tanto che non capitava più. Lo strattone – è quello che si sente, quando il gemello etereo decide di mollarti lì nel tuo letto, con tutta la tua pesantezza – è così forte da darti quasi l’impressione che qualcuno ti stia strappando a viva forza da te stesso, afferrandoti per il cuore. Ti strappa via la polpa che ti rende vivo e lascia in questo mondo un guscio vuoto, con tutti i suoi problemi meschini di nutrimento, di giunture cigolanti, di usura del tempo, di espulsione di rifiuti, e tu diventi due, da un lato guardi con ribrezzo quell’abbozzo mal riuscito che è rimasto laggiù, e dall’altro guardi ammirato la pura energia che sei sempre tu, e si libra in volo oltre ciò che è dato sentire nella vita di tutti i giorni.
L’unico problema è la memoria: troppo pesante quella del plantigrado per poter essere sostenuta dal doppio, troppo stupefacenti le esperienze del gemello per poter essere codificate negli schema cerebrali del corpo pesante. Così ho ricordi solo confusi dei luoghi in cui sono stato questa notte.
Se mi concentro, sento su tutto il corpo una straordinaria freschezza, come essere volato nella brezza di una notte estiva calda, caldissima, ed essere io stesso quell’unica bava di vento rinfrescante. E affiorano le stelle, migliaia e migliaia in un cielo limpido, mentre in lontananza sento voci allegre, di ragazzi e ragazze che si divertono. C’è una spiaggia, la conosco, è quella che di giorno è piena gabbiani, ma adesso è tutto buio e si vedono in lontananza le luci dei paesi e delle cittadine della costa.
Non tutto è consentito al gemello astrale, adesso per esempio gli piacerebbe mescolarsi con quei ragazzi, giocare, ma non lo può fare, a qualcosa alla fine serve, il corpo pesante. Il ricordo non è limpido, mi pare di avvertire un filo di malinconia. I ragazzi si rincorrono nell’acqua: fanno il bagno di notte, ce n’è qualcuno strano: uno, per esempio, se ne sta in piedi nell’acqua in mutande, tutto impettito, e sopra le mutande indossa la giacca e la cravatta. Altri due sono usciti dall’acqua, corrono insieme verso un maxicocomero che riposa sulla spiaggia, prendono un coltellone da uno zaino, sento netto il rumore della buccia che si spacca – crac – e si gettano sulla polpa impiastrandosi le mani, il viso, e intanto ridono come forsennati. Un po’ più lontano, in acqua, un ragazzo e una ragazza si baciano. Pare tutto bello, pare tutto giusto. Ma allora perché questa sensazione lieve, quasi soave, di malinconia? Solo per non poter partecipare ai loro giochi? Ma c’è qualcun altro, l’etereo lo sente, qualcuno che pure non ha corpo. Sono lì, con il mio doppio astrale, guardano lui e guardano i ragazzi, e pure l’etereo adesso guarda loro. Li guarda e li riguarda e non ci crede – ci sono cose che possono stupire anche una creatura di pura energia – ma deve arrendersi all’evidenza: la ragazza che bacia il ragazzo con i capelli rossi è là, nell’acqua con il suo ragazzo, ed è pure lì, accanto a lui, che guarda la scena trasognata. E il ragazzo del cocomero, quello che adesso sta scavando con le mani l’ultima polpa rossa, anche lui è là e contemporaneamente qua, solo più serio, e trasparente, quasi stesse per dileguarsi nella notte. E giurerei che quell’altro sono io… Ma io com’ero, quell’io un po’ cretino che però rideva sempre e aveva sempre una parola spiritosa, una battuta fulminante per far ridere gli amici.
Tutti e due, il ragazzo e la ragazza astrali, guardano il mio doppio, e a ripensarci adesso affiora il ricordo di una sofferenza – ma perché lui non riesce a comunicare? Non dovrebbe essere immediato, il contatto tra gli esseri fatati?
Ha capito, il doppio, qualcosa che a me adesso sfugge, colpa della pesantezza, colpa della materia greve… Ma no, stavolta non è così, non posso raccontarmi balle, è solo che mi sembra troppo bello averli visti una volta ancora, è meglio di un miracolo, è oltre ogni cosa abbia osato mai sperare.
E’ che è luglio, e pure il Bardo a mezza estate fece un viaggio folle. Stanotte è toccato a me, nel mese che quei due hanno scelto per il loro lungo viaggio, i primi tra noi tutti a salutare e ad incamminarsi su quella strada buia che si intravede appena, là, dove la spiaggia finisce e inizia la selva. Non ho visto Titania, io, non ho visto il piccolo popolo: Mauro, Carla, quanto mi piacerebbe che questo sogno inventato fosse vero. Vedervi una volta ancora, una volta sola correre di nuovo in acqua come allora, quando la notte era nostra, come sempre è stata e sarà di tutti i ragazzi di ogni tempo, gli unici immortali che calcano il suolo di questo pianeta.
E’ passato tanto tempo, rivorrei appena un po’ di quelle ore esaltanti. Sarà per questo che uno fa certe cose che anni fa non avrebbe pensato, tipo appassionarsi alla telelenovela perenne che è la vita di una nipote adolescente, o addirittura cercare di generare figli. E’ come con il fumo: ho smesso più di un anno fa e mi manca, e dopo il caffè non manco mai di accompagnare Tommaso, il collega che fuma, a fare la sua passeggiata in cortile. Sniffo le volute che si alzano dalla sua sigaretta, e così scrocco un po’ di piacere di ritorno. In questo il corpo astrale mi aiuta molto, fumandosi con piena soddisfazione non meno di tre o quattro sigarette ogni notte. E così, attraverso mia nipote e i cuccioli che sto cercando di traghettare a me, sniffo una robusta dose di gioventù. Ne vorrei altra, di prima mano. Ma il gemello etereo, qui, proprio non è riuscito a fare niente.

giovedì 16 luglio 2009

Se quindici anni vi sembrano troppi (e diciannove allora?)


C’è stata la condanna a 15 anni per il barista e il figlio che qualche mese fa ammazzarono a sprangate un ragazzino di colore di 19 anni che aveva rubato loro un pacco di biscotti. Il Corriere.it dà la notizia e permette ai lettori di commentarla, con i risultati che seguono. Ci sono per fortuna anche moltissime opinioni di segno contrario a quelle del campione che riporto, ma una buona metà, forse appena qualcosa di meno, sono su questo tono. Raggelanti.

Ma come si fa....
16.07|17:42
m.clyde
...ad esultare per una sentenza di condanna di questo genere? Ma come si fa a tirare in ballo il razzismo? Ma come si fa a giustificare la teppaglia che mina il nostro vivere civile, per il quale abbiamo faticato per generazioni? Io sinceramente non capisco. Qualcuno mi aggredisce, viola la mia proprietà, io reagisco per difendere il mio lavoro..... e il mascalzone sono io? E in più sono pure razzista? La realtà dei fatti è differente, c'è stato un furto, c'è stata una reazione, una violenta colluttazione e un disgraziato ci ha rimesso la vita. Punto. Nero o bianco o giallo, non cambia le cose. Se quel ragazzo non fosse entrato a rubare nel negozio, i due negozianti non lo avrebbero mica aggredito!! Se il gruppetto di sbandati (e c'erano anche bianchi, mi pare) non avesse accettato la rissa, non sarebbe morto nessuno. La morte è stata casuale: una bastonata che colpisce un punto vitale. Capita nelle risse. Per questo la gente civile tende ad evitare. Ma naturalmente i mascalzoni se ne approfittano. Ti aggrediscono, ti intimoriscono e fanno i loro comodi. Come cittadini, non lo dovremmo accettare. Chi si difende (salvi i casi di sproporzione tra i mezzi impiegati e non è questo il caso) dovrebbe comunque avere ragione ed il diritto alle attenuanti. A meno che non si voglia accettare la regola che se si viene aggrediti non ci si possa difendere, pena l'essere considerati colpevoli! E' una cosa pericolosa per tutti, bianchi e neri, donne e uomini. Vuol dire lasciare campo libero alla legge del più forte. Pensiamoci....

Solo una domanda...
16.07|17:40
Warin_viggosen
Alla luce dei numerosissimi casi d'immigrati messi in libertà subito dopo aver commesso ogni genere di reato, dal furto all'omicidio, passando anche per lo stupro e lo spaccio, e sempre a danno d'Italiani, siamo certi che se il ladruncolo fosse stato italiano ed i due assassini stranieri (cinesi, arabi, africani, albanesi... ) la sentenza sarebbe stata la stessa? ...La sensazione è che la magistratura infligga le pene con 2 pesi e 2 misure, a seconda dell'appartenenza etnica dei delinquenti e delle vittime: possibile che ogni volta che il carnefice è straniero e la vittima italiana, il criminale non paghi o paghi pochissimo, mentre a parti invertite, il criminale paghi col massimo della pena? ...Se la Giustizia è uguale per tutti, perché questa forma di vera e propria DISCRIMINAZIONE RAZZIALE a danno esclusivo degli italiani?

il problema non è l'episodio in sè, giustamente e severamente punito, ma il clima che si respira. Molti extracomunitari nelle grandi città sono arroganti e prepotenti, chiusi nei loro ghetti di giorno, allo sbando la notte, e gli abitanti non li reggono più, sono stufi dei loro soprusi e della loro maleducazione. Credo inoltre di aver letto che l'ambulante avesse avuto altre rapine e avesse temuto che il ragazzo stesse fuggendo con la cassa e non con un pacco di biscotti. Per inciso i biscotti, uno, pochi o un pacco si dovrebbero pagare, sempre, almeno io faccio così e cosi insegno ai figli. Sarà pur vero che gli immigrati disonesti sono pochi, ma allora mi spiegate perchè nelle carceri il loro rapporto sta dieci a uno nei confronti degli italiani? La pazienza non può stare da una parte sola, gli extracomunitari integrati spieghino ai loro connazionali quali sono le regole del vivere civile in Italia, o temo che la situazione degenererà investendo anche gli onesti.
assurdo....

16.07|17:11 madmax2
criminali rumeni che investono vecchiette x la strada o che violentano nei parchi liberi subito e due signori che si difendono da un furto 15 anni.....siamo al ridicolo davvero
girare alle 5 è pericoloso

16.07|17:11
ambroeus
Che ci sia stato un abuso di violenza è scontato ma che tutti i giorni i nergozianti siano nel mirino di tutta questa gentaglia che pretende di venire in italia e fare i propri comodi è altrattanto vero - i veri razzisti siete voi che continuate a difendere chi per primo non rispetta le regole -
Omicidio Volontario Aggravato: non sono d'accordo

16.07|17:11
degrisy
Ma come si fa a dire che padre e figlio abbiano commesso un omicidio VOLONTARIO? Non e' accettabile!!! A questo punto perche' non considerarla pure associazione a delinquere (erano in due, ma la moglie non e' intervenuta solo perche' stava dormendo). Questi sono i magistrati italiani. Vergogna!
concordo con francescadaoui

16.07|17:11
rasiera
Anche questo avvenimento dimostra una cosa, non possono esistere società multietniche pacifiche. Non lo era la Jugoslavia, non lo sono gli Usa, dove andrà sempre peggio, non lo è la Francia, dove ieri sono scoppiati nuovi disordini nelle banlieus e non lo sarà mai nessuna nazione europea, sicché stop immigrazione, salviamo il nostro futuro.

martedì 14 luglio 2009

mercoledì 8 luglio 2009

La tragedia di un uomo ridicolo

Un ritorno trionfale dopo una brevissima eclissi, un consenso oceanico, un paese innamorato di lui, una luna di miele come nessun capo di governo ha mai avuto: che poteva sperare di meglio? Quello che non è riuscito a noi “poveri comunisti”, come ci ha definito, è riuscito però a lui medesimo: farsi lo sgambetto sulla strada che porta al Colle.
Ci credeva davvero, stavolta. Conoscendo il soggetto ci crede ancora, ma ormai si mette male. Non tanto per puttanopoli in sé, che l’italiano medio un presidente puttaniere lo apprezzerebbe parecchio; più che altro, è l’immagine internazionale che si sta sciogliendo come un murale fatto coi pastelli quando piove. E lui urla al vento la sua disperazione, è il megacomplotto dei poteri forti del mondo contro uno del popolo che si è fatto da sé: Murdoch, Obama, la Merkel, il Financial Times, The Guardian, Zapatero, la Spectre, il dottor Destino e Superpippo, tutti contro Silvio.
Però, purtroppo, se uno vuole fare lo statista non è che può prescindere proprio del tutto dal contesto internazionale in cui è collocato il suo paese. La tentazione dell’autarchia è forte, e quasi incoraggiata da un popolo che non si è mai distinto per eccesso di internazionalismo; la via di fuga da questo lato, però, forse è troppo pericolosa anche per uno rotto a tutti i colpi di mano come lui: uscire dall’euro e dall’Europa, ridurre definitivamente il paese in miseria e tagliarlo fuori dai sentieri maestri della Storia per i prossimi cinquanta anni. Ai contemporanei riusciresti pure a darla a bere, perché degli italiani non c’è da fidarsi troppo e sarebbero disposti a seguirti anche in questa follia, come già settanta e passi anni fa osannarono le invettive del Duce contro la perfida Albione. Ma i posteri? E’ così che vuoi essere ricordato, Silvio? No, tu vuoi il tuo mezzobusto nella galleria dei padri della patria, e meno male, alla fine sarà la tua megalomania la nostra unica speranza di salvezza. Anche se non sono del tutto sicuro che non vada a finire male, magari non per tua esplicita iniziativa, ma perché qualcuno ti farà il regalo di pregarci gentilmente di accomodarci fuori. Ma se nessuno ti farà la grazia, il tuo destino è segnato: all’apice del successo e contemporaneamente al tramonto, pugnalato da te stesso, impotente e accidioso di fronte allo specchio che restituisce l’immagine del puttaniere, e non dello Statista. Eppure ho fatto quindici anni di storia italiana, eppure mi amano a milioni…
Deve essere brutto davvero: passi una vita a cercare di evadere da te stesso – brutto, piccolo e cafone -, sali sulla scala del potere arrampicandoti su sacchi di soldi impilati, non potendo svettare per evidente carenza di phisique du role riesci ad abbassare il livello di un popolo intero pur di emergere un pochino al di sopra (quel tanto che ti permettono i rialzi delle scarpe), solo per accorgerti che nemmeno così potrai essere universalmente amato. Ah, fossi nato cinquant’anni prima! Ma oggi no, isolare tutto il paese, ma proprio tutto, al tempo di internet… non è fattibile. Non si può fare in Iran, figurati qui. Chi guarda fuori è minoranza vessata, irrisa, sbeffeggiata, silenziata perfino, ma c’è. E ti restituisce impietosa l’immagine ridicola che vede negli occhi di chi ti osserva da fuori i confini. Non puoi isolare l’Italia come vorresti, tuo malgrado siamo nel mondo e non possiamo chiuderlo fuori. E nel mondo il tuo canto ipnotico risuona per la cacofonia che è e non incanta nessuno: quelli hanno orecchio e cultura musicale molto superiore a quella degli italioti. E così, Silvio, non ti resta che guardarti allo specchio: c’eri quasi riuscito, ma ciò che davvero sei ti ha impedito di spiccare il volo. Forse, chissà, il tuo inconscio ha voluto impedirtelo. Forse c’è in te una parte più onesta di quanto tu stesso mai avresti voluto, ed è stato questo improvvido grillo parlante che, non potendo ricondurti alla ragione, pur di fermarti ti ha spinto al passo falso. Non hai saputo contenerti, non hai saputo usare discrezione, solo quella è la differenza tra te e puttanieri sublimi come Mitterand, come JFK, che forse ne hanno fatte di peggio delle tue, ma avevano classe da vendere. E (last but not least) le donne non le pagavano ed erano pure statisti veri. Peccato, Silvio: ad un passo dalla vetta, hai perso la maschera ed è apparso il volto del satiro. Poi magari in vetta qualcuno ti ci porterà lo stesso, ma non sarà la stessa cosa. Nella Storia ormai ci sei, ma non so se puoi esserne davvero felice. Il controllo spasmodico che eserciti oggi sulla parola detta e scritta, quello stesso controllo che già mostra di soffrire la distanza di quegli organi internazionali a cui non puoi mettere la sordina, come potrà mai reggere al tempo? Cosa si penserà di te, quando non sarai più qui? Il tuo incubo è un libro dalle pagine tutte bianche, in attesa della penna che lo vergherà con la tua storia che ormai in gran parte è già scritta e ti condanna. E non ti rimane più molto spazio per cambiarla, il tuo tempo è già molto in là, quello che sei non potrai esserlo ancora molto a lungo. Erano altre le cose che avresti voluto scrivessero di te, ma ormai è troppo tardi per cambiare il corso di quelle penne future. Tu provi ad eternare il tuo controllo proiettandolo disperatamente nel futuro attraverso una cultura di massa imbarbarita, ma un giorno verrà qualcuno che finalmente si sentirà libero, e parlerà! Pensa, Silvio: che si dirà di te, tra cinquant’anni?