domenica 30 novembre 2008

Quei temerari sulle macchine da corsa


Alla fine dell’avventura inglese, il rammarico è di non aver avuto tempo a sufficienza per aggiornare il blog in diretta, come avevo iniziato a fare. OK, mi accontenterò di fare un sunto delle imperdibili (dis)avventure del Gattopuzzo a Londra, anche se certi episodi avrebbero meritato ben altro rilievo.
Cominciamo dal fine settimana, in cui noi sessanta prigionieri provenienti da trentacinque paesi diversi siamo stati messi in semilibertà. Solo semi, perché sabato ci hanno portato a fare le corse coi go kart, che non era come stare in aula ma non necessariamente era un divertimento… Ma, bontà, loro, non era obbligatorio, per cui tutto quello che ne è conseguito devo onestamente ammettere di essermelo andato a cercare.
La partenza (del pullman, non ancora della corsa) era alle 11, e dopo nemmeno mezz’ora eravamo già alla pista; il primo impatto con una cosa così non è proprio tranquillo: uno si immagina la macchinina a pedali della sua infanzia, e invece si trova ad ammirare dei mostriciattoli piuttosto lunghi e larghi che assomigliano pericolosamente, nell’estetica, ai mostri veri della formula 1; e non vanno per niente piano.

Il seguito non allenta la tensione, anzi: ci portano negli spogliatoi, ci danno tute caschi e guanti, ci fanno sedere tutti intorno a un tavolo e arriva un tizio molto smart – pure lui in tenuta da aviatore, chiaramente – che ci tiene un briefing che dovrebbe essere tranquillizzante, e invece è terrificante. A parte che è brasiliano e parla un inglese velocissimo e incomprensibile, c’è il problema che le regole da seguire durante questa corsa (perché proprio di competizione si tratta, non di giretti di pista come tutti avevamo creduto) sono talmente tante che è impossibile ricordarsele tutte, e non è che sia proprio innocuo fermarsi nel posto sbagliato o ripartire in un momento inopportuno, con il pericolo che ti piombi addosso qualcuno a ottanta all’ora mentre tu sei su un trabiccolo del tutto scoperto…


Vedo Wioletta, la ragazza polacca seduta accanto a me, impallidire progressivamente fino a confondersi con la parete: trattasi di creatura eterea e soave, già quasi trasparente di suo, e mi era sembrato strano assai che sì leggiadra creatura potesse trovare a sé confacente passatempo tanto ruvido e materiale; ad un certo punto mi tocca timidamente il gomito, la voce è quasi strozzata: - Maurizio, It was a terribile mistake, I can’t do these things, I’m very worried…I had been unwise... e io lì, da vero uomo, a rincuorarla insieme ad altri veri uomini e qualche vera donna – Don’t worry, Wioletta, it’s not as terribile as it seems, you will see… Now all is difficult for you, but when you will be driving you will enjoi, I am sure…- Cioè, questa è la trascrizione più o meno letterale di ciò che le ho detto nel mio inglese non proprio oxfordiano, non so se per lei sia stato intelligibile, come io spero. Del resto, erano una montagna di spacconate, perché io ero preoccupato quanto e più di lei, e facevo una fatica tremenda anche solo per non scappar via urlando. Insomma, com’è come non è, ci mettono in team insieme, io lei un lituano e un cinese, tale Wang, che aveva riso per tutto il tempo del briefing.
Il cinese si rivela subito pippa di proporzioni colossali: manco parte che già sta dietro a tutti, poi fa testacoda, poi alla fine non lo vedo più e non so che fine abbia fatto; io e il lituano, superata la paura iniziale, cominciamo a prenderci gusto e iniziamo la rimonta, attestandoci dignitosamente nella parte medio alta della graduatoria, subito dietro quelli che già ci avevano rifatto, e che però confesseranno solo a corsa finita; e Wioletta? Wioletta, la nostra diafana mascotte, all’abbassarsi della bandiera è schizzata fuori dalla griglia come un missile – per la paura, ha avuto l’ardire di dirmi poi -, si è posizionata tra i primi e da quel momento io di lei ho visto solo le ruote posteriori, e sempre più lontane. Ogni tanto davo un’occhiata al tabellone, e sconsolato constatavo che mi dava due secondi al giro, giro dopo giro, finché poi non l’ho proprio vista più.

E, mentre battagliavo per la settima o la nona posizione, a seconda dei giri, mi chiedevo pure che fine avesse fatto il cinese… Non fosse stato per lui, con la performance astronomica dell’angelo da corsa (così abbiamo ribattezzato la nostra polacchina) e quella più che dignitosa (fino a quel momento, almeno…) mia e del lituano avremmo potuto essere in testa… E invece quello era disperso, e noi penultimi! E allora dacci dentro Gattopuzzo, vai che ce la fai, dai che quelli davanti non sono poi così lontani, pigia senza paura sull’acceleratore che li puoi prendere… E infatti li ho presi: proprio frontali, dopo un doppio testa coda carpiato con salto di chicane e crash finale con avvitamento sulle due macchinine che mi precedevano e che nel volo ho superato, tagliandogli la strada attraverso la chicane. Risultato: finisco sì davanti a loro – in maniera non proprio sportiva , essendo stato il più lesto a ripartire -, ma la prodezza ci procura solo il terzultimo posto (al team) e un ginocchio come una zampogna (a me). Del cinese, nessuna notizia fino a dopo il traguardo: si era fermato e poi era ripartito con andatura da torpedone, per le ire dell’angelica fanciulla, che ha rinunciato a morsicarlo solo grazie all’intervento di peace enforcing del bravo lituano.

Conclusione della gloriosa giornata: Gattopuzzo in camera, sdraiato su poltrona reclinabile con poggiapiedi, urlante di dolore con sul ginocchio il ghiaccio dello champagne – e sì, in camera c’era anche quello, da quanto costava ho temuto che anche per l’uso del solo ghiaccio mi avrebbero estorto come minimo una ventina di pound, evento per fortuna non verificatosi.
Più tardi, verso le sei di sera, ho radunato quello che restava del coraggio (e dell’orgoglio) e mi sono avviato dignitosamente verso la hall dove ci attendevano per portarci a cena, ululando tra me e me per non zoppicare. E chi c’era nella hall? Ma Wioletta, e chi se no? Che stava lì a pavoneggiarsi davanti a un nugolo di maschi giovani, celibi e adoranti, evidentemente sedotti dai modi da dominatrice dell’angelica creatura, che appena mi vede mi scocca e un gran sorriso e poi, rivolta all’audience –I must to say to you, I have been able to do all thanks to Maurizio… Without his boost, I couldn’t did anything!
‘Tacci tua, ‘tacci…

sabato 22 novembre 2008

Io e la Tina

Stamattina, essendo sabato, il vostro Gattopuzzo gode della semiliberta’: fino alle 11.15 puo’ tranquillamente farsi gli affari suoi, che comprendono tutto tranne la colazione: i gentili organizzatori, infatti, non offrono questo servizio nei giorni in cui la conferenza viene sospesa, e a battere palmo a palmo tutta Canary Wharf non si trova un bar aperto che e’ uno, prima delle dieci. Certo, ci sarebbe quello dell’albergo, ma poi lunedi’ mattina, alla relazione sui mutuatari insolventi, potrei offrirmi come esempio antropologico vivente dell’originatore della crisi dei mutui, dell’untore. Una sorta di paziente zero, insomma. E aspettiamo le dieci, allora. Poi, a colazione fatta, verremo di nuovo imbrancati e costretti a una di quelle attivita’ che fanno tanto fico in certi ambienti, e che pero’ stavolta trovo divertente pure io: andiamo a correre su una pista di go-kart. Almeno spero che sia divertente, perche’ il mio ultimo go-kart aveva i pedali e io avevo cinque anni, non ho seguito l’evoluzione tecnologica che c’e’ stata in mezzo e magari il mostro rombante che mi metteranno sotto il sedere fra un po’ potrebbe essere difficile da domare, chissa’.
In questi due giorni in cui non ho avuto modo di tenervi aggiornati non e’ successo granche’; unico episodio degno di nota, il dialogo surreale tra il rustico Gattopuzzo (che, sia detto in confidenza, non e’ esattamente un madrelingua inglese) e una delle hostess del convegno: “will you join us for ‘tina’?” – “Sorry?” – “I asked you if you will join us for ‘tina’”…
Ohibo’, e mo’ chi e’ ‘sta Tina? E che vuole da me? Mica mi vorranno offrire pure l’escort... E perche’ poi 'join us'… Ma che fanno, le ammucchiate?
Il GPZ, che e’ un tradizionalista fedele e dalle sconosciute non accetta le caramelle - figuriamoci il resto -, se non fosse stato assolutamente incredulo avrebbe cominciato a sudare freddo e ad arricciare il pelo; ma poi e’ intervenuta in suo aiuto una seconda hostess, evidentemente allarmata dal soffiare felino che deve aver sentito alle sue spalle: “Ok sir, my colleague is asking you if you will come with us to Hush, the restaurant where we will have dinner”.
Ahahhh…. Pero’, che cavolo: vabbe’ che il mio orecchio non e’ proprio quello di un interprete, ma ‘tina’ per ‘ dinner’ mi pare quasi dialettale… O sbaglio? Ah, le sofferenze dei gattopuzzi emigranti…

mercoledì 19 novembre 2008

La terza via

Primo giorno a Londra, e prima sospresa: niente disavventure. Che e’ davvero strano, dopo la piccola odissea di due anni fa (che un giorno vi raccontero’) e, soprattutto, dopo le difficolta’ pressoche’ insormontabili che ho trovato nel fare la valigia.
Lo dico senza pudori: il gattopuzzo, come del resto e’ adeguatamente spiegato nell’intestazione di questo blog, e’ uno spirito selvatico per antichissimo lignaggio; un mondo impietosamente cangiante e il tramonto della ruralita’ lo hanno costretto a riciclarsi nell’ambiente urbano (financo nella business community internazionale!) ed e’ anche riuscito a mimetizzarsi piuttosto bene nella fauna globale, ma resta fondamentalmente diffidente nei confronti di questi ambienti rarefatti e artificiali, e spesso si trova a soffiare il proprio disappunto, proprio come i felini di fronte all'odiato nemico abbaiante.
Gia’ e’ un indicibile sacrificio, tutte le mattine che ha fatto Dio, ficcarsi dentro una giacca e annodarsi una cravatta, eppero’ ormai a quello si e’ abituato, salvo concedersi svariati casual Friday anche quando venerdi’ non sarebbe (dove per casual si intende casual vero, con i jeans, per l’orrore dei suoi capi); capirete, pero’, che uno che si mette un vestito con lo stesso entusiasmo con cui indosserebbe una tuta da palombaro non sprechi molta fantasia nell’ideare varianti: e infatti il vostro GPZ si e’ comprato una serie di abiti sciccosi, molto ingessati, assolutamente impeccabili, e li indossa senza concedersi nemmeno una variante sulla cravatta, per paura di sbagliare accostamento.
E che dovrebbe fare uno cosi’, che si veste da ufficio come se camminasse sulle uova, alla lettura dell’invito in cui si raccomanda dressing code: business casual?
Ma va nel panico, mi pare assolutamente ovvio! Ho passato una serata intera, dalle sette a mezzanotte (con pausa cena, pero’) a smontare e rimontare il mio guardaroba, che come lo giri lo giri sempre e solo due dressing code tira fuori: o business o casual, ma niente che possa assomigliare a questa agognata terza via, che del resto neppure Berlinguer riusci’ a trovare.
Che fare? Rapido giro in internet, dove scopro che al business casual sono dedicate decine di migliaia di pagine, e anche di immagini; il dibattito verte sul corduroy (velluto a coste, che ce l'avrei pure): e’ o non e’ business casual? Certo, nelle jpeg che scarichi dalla rete lo indossano certi figaccioni che pure se gli metti addosso la giacchettina del nonno contadino sembrano neglettamente alteri, diceva Manzoni; ma io? Non e’ che con i gattopuzzi lo specchio funziona al contrario e rimanda l’immagine del nonno contadino anche se vado a spogliare l’emporio Armani?
Nel dubbio decido di astenermi; tento di promuovere accoppiamenti incestuosi tra la giacca con cui mi sono sposato e un paio di jeans seminuovi, o tra l’ultima grisaglia che mi sono comprato e un paio di pantaloni di tela grezza, ma niente: quelli proprio non ne vogliono sapere di stare assieme, l’amore non sboccia, e che vuoi farci? Se il magnetismo non c’e’…
Alla fine, esausto e sommerso di tessuti manco fossi in un sottoscala di sartine cinesi, mi arrendo: mi porto il business e mi porto il casual, e parto con l’unica improbabile accoppiata che sono riuscito a tenere insieme, jeans Timberland (pero’ marroni), giacca marrone superstite da vestito dimezzato, maglioncino verde.
Arrivo, mi vengono a prendere, mi portano in albergo: manco un’ora per riprendersi e c’e’ il cocktail di benvenuto, dal quale sono per l’appunto reduce or ora che sto scrivendo. Sono andato cosi’ come avevo viaggiato, e sapete come si erano vestiti i temutissimi figaccioni?
Allora, un africano si era messo in costume tradizionale, e passi, perche’ era davvero elegantissimo; l’ottanta percento pareva (ma pareva soltanto) in tiratissima tenuta business, perche’… il casual l’avevano spostato tutto sulle scarpe, che esibivano fogge assolutamente improbabili; gli orientali erano in tenuta da business, ma con accozzaglie di colori che manco a Carnevale. Si salvavano ovviamente le signore di ogni nazionalita', vuoi per un minimo di buon gusto in piu’ rispetto ai maschietti, vuoi per la maggiore varieta’ del loro abbigliamento.
Insomma, alla fine il GPZ, con la sua tenuta sobria ma non del tutto sbracata, ha fatto davvero un figurone!
Resta da vedere come mi vestiro’ domani, dato che l’unica cartuccia me la sono sparata questa sera…

martedì 18 novembre 2008

Gattopuzzo migratore

L’anno scorso il GPZ volò a Londra: ne scaturirono una serie di disavventure esilaranti, tutte documentate da accuratissime e-mail scritte là per là, e ora custodite gelosamente dalla signora Cucciola, in attesa di probabile pubblicazione, uno di questi giorni, quando non avrò la voglia e la presunzione di scrivere qualcosa di nuovo.
La notizia è che l’avventura sta per ripetersi: domani mattina il vostro magnifico GPZ si getterà tra le braccia della perfida Albione, ospite nientepopodimenoché di Morgan Stanley (se non fallisce prima, of course: dirlo non sarà elegante, ma di questi tempi un’altra merchant bank che salta in aria non mi stupirebbe affatto).
Le disavventure, in realtà, sono già iniziate: mai valigia è stata più difficile di questa. Il perché? Ve lo dirò al ritorno, my beloved friends… Per ora pazientate: giovedì 28 sarò di ritorno, e vi prometto un resoconto con i fiocchi!
Bye

GPZ

giovedì 13 novembre 2008

La spia dell’istruzione

di Cristiana Capagni

Un buon criterio per valutare il livello di civiltà di una nazione è verificare se e quanta attenzione istituzioni e cittadini dedicano a sanità ed istruzione. Un’altra spia è il trattamento degli animali e leggi a loro tutela e salvaguardia.
Nonostante la sanità nel nostro Paese venga assai spesso criticata e a dispetto dei casi eclatanti di malasanità, dobbiamo tuttavia riconoscere che nel suo insieme funziona. Con ampi margini di ‘migliorabilità’, ma funziona.
Non può dirsi esattamente la stessa cosa per quanto riguarda il trattamento degli animali.
Anche per loro, come per i malati, molto ci si appoggia allo straordinario operato dei volontari.
Per quel che riguarda invece l’istruzione, bersagliata dai tagli ai bilanci, il discorso è ancor meno roseo.
La diserzione scolastica nel nostro Paese è una realtà - secondo alcune fonti in costante aumento - intollerabile sotto il profilo etico e morale ma anche dal punto di vista pratico: non potendo contare su preparazione e cultura, qual è il futuro che attende il nostro Paese?
Se un certo potere può auspicare la proliferazione di una massa incapace di essere critica, nel complesso il costo sociale dell’abbandono scolastico è altissimo e si paga anche – non solo – in termini di criminalità.
Invogliare allo studio non può prescindere da alcune elementari regole, prima fra tutte che il conseguimento di un diploma abbia effettivamente valore. Perché ciò avvenga, la selezione deve essere piuttosto rigida: i cosiddetti diplomifici hanno avuto come unica conseguenza quella di abbassare il valore del diploma conseguito. Ciò ha due risvolti: la necessità di ottenere un numero sempre maggiore di riconoscimenti (master, specializzazioni) nella speranza di essere competitivi da una parte, e il depauperamento della qualità di quanto appreso durante la formazione scolastica dall’altra. Uno studio piuttosto recente evidenziava come il livello qualitativo di un diploma di maturità conseguito attualmente corrispondesse a quello di un diploma di scuola media inferiore degli anni ‘Settanta.
Ma per invogliare allo studio occorre anche che esso abbia dei costi sostenibili per le famiglie. In un Paese civile e moderno, almeno la scuola dell’obbligo dovrebbe essere gratuita. Non è così in Italia, dove ciascuno studente al suo ingresso alla scuola media, soltanto per i libri, costerà alla propria famiglia mediamente trecento euro, che diventano cinquecento al liceo. Non c’è dunque da meravigliarsi se nelle fasce non troppo agiate della popolazione l’abbandono scolastico è così frequente.
Eppure la cultura è fondamentale alla formazione di individui coscienti e responsabili, il ragionamento difende le persone dal diventare facilmente manipolabili, la conoscenza consente di non cadere facili prede di assurdi slogan e di pericolosi comportamenti; motivo per cui una nazione che aspira ad un futuro florido dovrebbe avere tra le sue priorità la formazione culturale delle nuove generazioni, indipendentemente dal fatto che non possiamo diventare tutti avvocati o tutti medici. Forse alcuni si domanderanno perché mai un futuro meccanico dovrebbe discettare di Platone: è a costoro che vorremmo ricordare quanto la cultura aiuti ad aprire la mente. E la mente, come ebbe a dire Einstein, è come un paracadute: funziona solo se si apre.

martedì 11 novembre 2008

Le parole tradite

Su Lavoce.info (URL: ), che è un sito fondato e curato da molti importanti economisti e “scienziati sociali” in generale, c’è un commento di Edoardo Vianello sull’elezione di Obama che, rifacendo la storia delle elezioni americane, ad un certo punto recita: “[…] Dal 1980, la politica americana è stata dominata dall’alleanza costituita da Reagan. La base politica (“silent majority”) ha appoggiato questo programma economico e sociale molto conservatore. Lo stesso Clinton ha continuato molte politiche dei sui immediati predecessori. Per rafforzare le sue credenziali moderate, l’allora candidato Clinton diede il via libera per giustiziare un infermo di mente che si trovava nel braccio della morte in una prigione dell’Arkansas[…]”.
Credenziali moderate? Uno che fa giustiziare un infermo di mente?
Ecco, tra i tanti regali che tra poco chiederemo a Babbo Natale mi sa che dovremmo mettere anche un bel miracolo che restituisca alle parole il loro vero significato; da ormai molti anni a questa parte, infatti, accade che si separi sistematicamente la realtà dalla sua rappresentazione, per far digerire l’indigeribile a elettori, consumatori e lavoratori*. E così le guerre sono diventate operazioni di pace (peace enforcing), la tortura una “tecnica speciale di interrogatorio”, gli insulti razzisti “carinerie”, i repubblichini fascisti di Salò sono combattenti per la patria e uno morto latitante come Craxi è stato insignito dello status di esiliato. E ancora, questo gioco è capace di trasformare la Resistenza in una oscura pagina di guerra civile partigiana, un mafioso in un eroe (prerequisito essenziale: aver fatto lo stalliere del presidente del consiglio), il divieto di ricerca sulle cellule staminali in tutela della vita e chissà, magari anche la cacca in cioccolata (però assaggiate prima voi, io sono un po’ debole di stomaco).
Una volta un moderato era uno magari un po’ grigio, di quelli che difficilmente li vedevi in jeans ma neppure in giacca e cravatta; prediligevano il gileino di lana beige sopra la camicia e i pantaloni di flanella, andavano ogni tanto a messa la domenica e soprattutto erano costantemente impegnati a cercare la via di mezzo in ogni cosa, idealizzando quell’aurea mediocritas che cantava Orazio ed era però una cosa molto diversa dalla mediocrità come la intendiamo oggi. Del resto, la moderazione dovrebbe essere la qualità di chi rifugge dalle posizioni estreme, a rigor di logica. E allora, che c’entra con la moderazione uno che manda al patibolo una persona non in grado di intendere di volere? Anzi, come fa a definirsi moderato uno che è disposto a mettere a morte un altro, indipendentemente da chi è quell’altro?
La battuta di Moretti in Palombella Rossa è diventata un tormentone, negli anni: “chi parla male pensa male, e chi pensa male vive male!”, ma un sacco di gente proprio non ha capito quanto sia vera. Il linguaggio che usiamo, tra le tante altre cose, contribuisce a formare il nostro modo di pensare al livello più basso, quello di cui noi stessi siamo meno consapevoli, impregna le cose che diamo per scontate; e questo spiega cosa è probabilmente accaduto al povero Edoardo Vianello, l’estensore del pezzo che ho citato prima: a forza di sentir qualificare come moderati gli esponenti di un’accolita di pazzi che hanno portato l’Occidente in guerra e l’economia alla rovina, si deve essere convinto anche lui che gli estremisti sono gli altri, quelli che le guerre non le vorrebbero e possibilmente il prossimo vorrebbero evitare di ammazzarlo anche a casa propria.


* queste tre categorie dovrebbero in realtà saldarsi come le componenti di Jeeg robot d’acciaio in un soggetto unico chiamato cittadino, ma ormai questo non avviene più da tanto tempo e in fondo è un’altra storia, anche più grave di quella che stiamo raccontando, per cui lasciamola in serbo per un altro post.

lunedì 10 novembre 2008

La storia e il folklore

La gaffe del Berlusca su Obama abbronzato ormai l’hanno commentata tutti fino alla nausea. Io di mio non ci aggiungo niente, mi limito a riportare due commenti secchi e secondo me molto intelligenti fatti da due miei amici.
Francesco ha detto, parlando del coro indignato che si è levato dall’opposizione: “ma questi qui ancora non l’hanno capito che l’indignazione in questo paese fa solo ridere e ti fa fare la figura del trombone? Oltre tutto, chi si indigna quasi mai ha titolo per farlo, perché tutti hanno storie personali a dir poco imbarazzanti. Dovrebbero limitarsi ad un’alzata di spalle sprezzante, lasciarlo affondare nel ridicolo di cui si copre abbondantemente da solo, invece di sollevare questi vespai polemici da cui alla fine esce sempre e comunque vincitore”.
Franco invece, parlando proprio di lui, ha detto: “quella battuta non era razzista, era davvero una battuta; politicamente scorretta, certo, ma senza alcun retropensiero: l’uomo è semplicemente ignorante e insensibile, e quindi non si rende conto. La cosa veramente grave è che in un momento storico, di quelli che tutti noi ricorderemo per tutta la vita e che ha sollevato passioni, emozioni e ha dato a tutti la percezione netta di stare dentro la Storia con la “S” maiuscola, questo non ha trovato niente di meglio da dire. Poteva dire cose banali come limitarsi a constatare che finalmente sono stati superati i pregiudizi razziali, poteva commentare la grande prova di democrazia testimoniata dall’affluenza al voto, che è stata enorme per gli USA; poteva dire tutto questo e molto di più, e invece ha raccontato una barzelletta pecoreccia da bar sport. Il che dà la misura dell’uomo e, purtroppo, del popolo che lo ha eletto”.
Come commentava - se non ricordo male - Michele Serra: loro fanno la storia, noi facciamo il folklore.

venerdì 7 novembre 2008

Tristi figuri

L’altra sera, tornando a casa a piedi dal lavoro, mi sono imbattuto nella manifestazione pro-Obama del PD, a piazza del Pantheon. La tristezza era infinita, con Veltroni (mamma mia, quanto assomiglia al Ciccio di Nonna Papera, visto da vicino) che arringava da un palchetto quattro militanti spelacchiati e quasi silenziosi, ringraziandoli di essere “accorsi numerosi” nonostante la convocazione repentina, via sms. Dietro stavano schierati, rigorosamente in doppiopetto grigio con giubbottino impermeabile nero, D’Alema (Topesio, volendo trovare anche a lui un alter ego disneyano), un ciccione che mi è sembrato Fioroni, quello che resta della Melandri, rinsecchita e incartapecorita comìè, e vari altri figuri mosci.
Data l’atmosfera, e visto che era notte e stava pure per piovere, uno poteva pensare a una celebrazione funebre. E invece Ciccio, indefesso, narrava entusiasta tutta un’altra piazza, caciarona e festante, affollata ed energica; mi sa che aveva davanti al leggìo un microschermo che dava in diretta la festa di Chicago, è l’unica spiegazione razionale, in alternativa alle allucinazioni. Dico: negare la realtà non è bello, ma almeno finché uno racconta le cose in televisione può sperare che chi ascolta ci creda; farlo con chi c’è, mentre c’è, è davvero roba da manicomio, ma quello vero, pre-Basaglia.
Le immagini della festa di Chicago, del discorso da brividi di Obama, della folla ipnotizzata che lo acclamava erano davvero tanto, tanto lontane dalla tristezza di questa combriccola intorpidita. Fossi stato un giornalista, un commentatore, insomma uno qualsiasi titolato a salire su quel palco, mi sarebbe piaciuto porre a quei signori qualche domanda. Ma non potevo, ovviamente, per cui le riassumo tutte qui. Intanto, mi piacerebbe chiedere a Ciccio cosa gli fa pensare che noi tutti si sia così citrulli da berci le parole di Obama pronunciate da lui: non è che sia indifferente, almeno per me, la storia personale di chi parla, i suoi precedenti, chi è stato e chi è; certe cose, dette da Obama, mi danno i brividi e mi esaltano; dette da lui o da Topesio o da qualsiasi altro politicante nostrano diventano solo slogan e mi deprimono. Oltre tutto è cattivo marketing, perché i claim andrebbero cuciti sul prodotto, e questo nostrano è un prodotto che di obamiano non ha proprio niente. La seconda domanda che mi viene è perché lor signori non pongono fine alla lunga teoria di danni che hanno prodotto facendosi da parte, o almeno accettando che qualcuno possa sfidarli e magari scalzarli, come Obama ha potuto fare con la Clinton; ma qui da noi le primarie le fanno solo dopo aver scelto il vincitore, e quando hanno provato a farle davvero, come alle ultime regionali in Puglia, ne sono usciti terrorizzati: il prescelto non solo non era quello indicato dall’apparato, ma si è pure permesso di vincere le elezioni. Imperdonabile.
Un’altra domanda mi verrebbe da porla, invece, a tutti quei commentatori destrorsi e terzisti – Riotta e Mieli in testa – che dal momento stesso in cui il vincitore è stato annunciato hanno cominciato a farsi in quattro per per esibire su ogni frequenza la loro smagata attitudine di uomini di mondo, di iniziati ai segreti che si celano dietro le quinte e tutto appiattiscono, tutto ingrigiscono nell’ingranaggio spietato della realpolitik: guardate, popolo di sempliciotti, che è marketing, è immagine, noi lo sappiamo; un presidente americano è un presidente americano, farà gli interessi degli Stati Uniti, farà pure un’altra guerra se gli servirà, voi lo idolatrate, ma noi non ci caschiamo.
Anzi, a questi non è una domanda che vorrei rivolgere, ma piuttosto una richiesta: lasciateci in pace. Non è che fuori dalle vostre redazioni tutti sono così coglioni da non capire che è impossibile che questo presidente possa realizzare le aspettative stratosferiche che ha suscitato; non è che tutti sono così candidi da non immaginare che per lui l’interesse del suo paese verrà prima di qualsiasi altra preoccupazione. Non preoccupatevi, ci arriviamo da soli a capire queste faccende. Quello che non capisco – io – è come fate – voi – a non rendervi conto che la speranza di tutti quelli che hanno festeggiato in tutto il mondo non è che questo signore rinunci a tutelare il suo paese, ma che lo faccia in un modo diverso da quanto hanno fatto i suoi ultimi predecessori; chi l’ha detto che istituire negli USA un servizio sanitario pubblico degno di questo nome, chiudere Guantanamo, ritirare le truppe dal pantano iracheno, promuovere l’industria delle energie rinnovabili siano azioni che ledono gli interessi degli Stati Uniti? Chi l’ha detto che in questo modo non si possano tutelare non di meno, ma di più – e meglio – gli interessi di quel paese? O dobbiamo concludere che quegli interessi siano stati ben tutelati da chi ha fatto due guerre e ha fatto schizzare il debito dello stato per pagarle, riversando fiumi di soldi nelle tasche delle multinazionali degli armamenti e del petrolio? Da chi ha portato allo sfascio il sistema delle regole della finanza e il mondo sull'orlo di una recessione globale? Io questo mi aspetto da Obama: che faccia davvero gli interessi del suo paese, perché questi interessi - quelli veri - sono anche i nostri, e possono essere quelli di tutti. Può rivelarsi una delusione, dite? Certo che sì. Ma perché devo pensare già adesso che probabilmente lo sarà? A me pare che le premesse perché faccia bene ci siano tutte. Certo, lo aspettiamo alla prova dei fatti. Ma per favore, fate lo stesso anche voi. Della vostra triste supponenza non sappiamo davvero che farcene; nè di quella, né della retorica triste di Ciccio.

mercoledì 5 novembre 2008

Io e Obama, ovvero...

Il presidente Gattopuzzo!

Da Wikipedia, alla voce Barack Hussein Obama:

“[…] Dopo il liceo, Obama studiò per un paio d'anni all'Occidental College, prima di spostarsi al Columbia College della Columbia University. Là si laureò in scienze politiche, con una specializzazione in relazioni internazionali.[14][15] Dopo la laurea, lavorò per un anno alla Business International Corporation (ora parte del The Economist Group), una ditta che forniva notizie economiche di carattere internazionale alle aziende clienti[…]”.

Capito? Sappiate, o popolo di miscredenti, che anche il GPZ ha lavorato in Business International: Il GPZ e Obama erano colleghi! E così ho anch'io titolo per partecipare allo sport nazionale nato ieri sera, lo scrocco del passaggio sul carro del vincitore Obama. Certo, lui lavorava nella sede americana e io in quella italiana, lui negli anni ottanta e io nei novanta, ma cosa volete che siano lo spazio e il tempo a fronte dell’immensità di un sogno? E’ l’ora, è l’ora! Se tanto mi dà tanto, lui è diventato presidente più di venti anni dopo aver lavorato lì, e io me ne sono andato solo dieci anni fa: fate i vostri conti, fra dieci anni o poco più (diciamo duemilaventi, così fa cifra tonda) avrete il GATTOPUZZO PRESIDENTE!!!
E ora scusate, scappo che devo andare a preparare i gadget per la mia campagna, Obama insegna: meglio muoversi per tempo.
E soprattutto, mi vado a prendere una solenne sbronza a base di champagne con la mia cucciolotta, alla faccia dei Teocon, Neocon, Viasat, Viacal, Battisti, Mormoni, Neocatecumenali, Focolarini, Fanatici con la F maiuscola e soprattutto alla faccia di quella manica di stronzi che ieri sera pur di avvolgersi nell’alone del successo (e scrollarsi di dosso la puzza della sconfitta) impazzavano da Vespa con i loro “Obama assomiglia a noi”. Ah La Russa, ma ce l’hai gli specchi a casa? Passi per il Berlusca, che se pure ce l’ha non ch’arriva proprio, a specchiarsi, ma tu, brutto come sei e però cieco sicuramente no, che scuse accampi?
Per oggi fine delle trasmissioni, ci si sente domani!
Il vostro affezionatissimo

GPZ (The President!)

lunedì 3 novembre 2008