Il Gattopuzzo è di origine abruzzese. Non direttamente: a nascere tra le montagne è stata mia madre, ma io mi sono sempre sentito molto legato a quella terra dura, e spesso mi presento come abruzzese. In queste ore terribili della distruzione dell'Aquila, di Olla e di tanti altri paesini di quella che considero la mia patria d'adozione dovrei essere devastato, e non lo sono. La cosa mi fa sentire colpevole, e vale la pena cercare di capire cos'è che (non) mi fa sentire come mi dovrei sentire. Non è niente di nobile: è solo incazzatura. Passerà, e allora soffrirò, come altre volte mi è successo in passato.
Avere le radici affondate in un qualche luogo di questo mondo significa non potersene liberare. Spesso anche non volersene liberare, ed è quanto capita a me rispetto al tenue legame che continuo a coltivare dentro di me con l'Abruzzo. Amo quelle montagne aspre e pelate, quei paesaggi di terra e di sassi dove puoi camminare fino allo sfinimento prima di incontrare un essere umano, una casa, un semplice recinto per le pecore. Su quelle montagne mio nonno ha faticato buona parte della sua vita, tra pecore cani e capanne, e mia nonna si è rotta la schiena per far crescere patate e rape in mezzo alle pietre. Di mia nonna non ricordo quasi niente, è morta che avevo due anni; ricordo bene il nonno, un vecchio alto e diritto, con gli occhi chiari e una piega all'angolo della bocca, come una smorfia di sofferenza. Era di una bontà disarmante. Altri vecchi della mia famiglia non erano come lui: la pietra, il vento e la neve li avevano induriti, avevano cotto la loro anima come la pelle della loro faccia, diventata cuoio. Erano macchine da sopravvivenza, avvezzi alle tempeste e alle guerre, che in gioventù avevano combattuto a ripetizione accettandole come si accettano la pioggia e la neve. E di generazione in generazione questi vecchi colore del cuoio hanno annichilito il cuore e addestrato il cervello a fare a meno di qualsiasi pensiero astratto, perpetuando una genìa tristemente concreta, dedita a sposarsi e riprodursi in un ciclo sempre uguale, e a tirar su casa. Tirar su casa: so di sacrifici inenarrabili fatti come se non fosse possibile altra scelta, e forse nella mente di quelle persone era davvero così. Cubi di cemento, di mattoni, di calce tirati su per ogni dove, in mezzo ai prati come sulle pendici scoscese delle montagne, dove costruivano quelle case assurde di tre piani in cui potevi entrare o dal piamo terra, come in tutte le case di questo mondo, oppure direttamente dal terzo piano, se facevi il giro della casa e ti arrampicavi su per l'erta dove l'avevano ancorata, tra la parete di roccia e il cielo. Nessuna concessione all'estetica, edifici brutti e squadrati che sono sorti come funghi, uno dopo l'altro, a snaturare un paesaggio immacolato inframmezzandolo di grigio e di recinzioni di rete, di filo spinato, di mattoni, di legno, ognuna fatta a modo suo, senza armonia, in una cacofonia di colori, di madonne da giardino e di infissi di alluminio. Paesaggi gloriosi perduti per sempre, trasformati in distese dove lo sguardo non si riposa, inciampa continuamente in ostacoli massicci o sottili, ma tutti ugualmente brutti.
Tante volte ho litigato con i vecchi della mia famiglia, per questa loro concezione del mondo che esilia ogni forma di bellezza. Mi hanno sempre risposto che la bellezza è un lusso, che io me la posso permettere perché loro si sono spaccati la schiena per offrire a figli e nipoti qualcosa di più, e però loro non hanno mai voluto capire me quando gli chiedevo come mai, se adesso era possibile permettersi quel lusso, non se lo permettevano pure loro, e soprattutto come mai non si permettevano e non si permettono ancora oggi nessun riposo; come mai stanno ancora lì a tirar su blocchetti e a pagare condoni - quello che costruiscono è rigorosamente abusivo, fatto con il cemento più scadente e, ovviamente, brutto - ora che noi figli, noi nipoti siamo grandi e le nostre case le abbiamo, oppure paghiamo l'affitto se non abbiamo voglia di fare la vita che hanno fatto loro. Ma niente, pare che un uomo non sia un uomo se non suda come un animale tra carriole, carrucole e cazzuole, e una donna non sia una donna se non lo sostiene nell'impresa accudendo i figli, preparando puntuale il pranzo e la cena, lavando e stirando. Non c'è festa comandata in cui io e mio zio non ci azzanniamo, subito dopo pranzo, su queste nostre opposte concezioni del mondo, e lui mi commisera, lo vedo, per non essere capace - pensa - di fare quello che lui ha fatto: uomo senza spina dorsale, senza senso della famiglia e dell'onore.
Certe cose ai vecchi si perdonano, ma un po' di veleno rimane.
Ed ecco che una notte la terra trema, e la sentiamo anche a Roma; e il mattino dopo ci alziamo e la TV, o il vicino di casa, o il collega in ufficio ci dicono che è stata una tragedia, che è venuta giù mezza città dell'Aquila e vari paesini, e la notizia stordisce. I parenti, gli amici... Tutti salvi, quasi per miracolo, ma parecchi hanno perso la casa. Racconti drammatici di corse per le scale come se si corresse sull'acqua, che quelle si disfacevano mentre ci posavi i piedi sopra. I pianti al telefono, le urla di quelli che in meno di un minuto hanno visto tutte le loro cose venire giù, e anche la casa tirata su con tanta fatica è venuta giù, insieme a tutta la loro vita, ai ricordi, al servizio buono regalato dalla zia per le nozze, le foto, tutto perso.
E' troppo per poter partecipare, un lago nero mi si allarga nel cuore, come sangue vischioso. E' un dolore antico che non ho voglia di riconoscere, preferisco lasciarlo dov'è, ignorarlo. Meglio lasciar guidare la testa, quella testa che, dopo aver tirato un sospiro di sollievo - avete perso tutto, ma almeno siete vivi - comincia a giudicare. E a ricordare di quante infinite discussioni furono oggetto quelle case orrende e insicure, messe insieme alla meno peggio perché tanto sarebbero state comunque meglio di una capanna e invece no, oggi sono diventate trappole mortali e sarebbe stato cento, mille volte meglio avere sulla testa un tetto di paglia o anche di lamiera, una cosa che cadendo almeno non ppossa farti male. Il dolore che confino laggiù, in fondo al cuore, deve essere quello antico che io non ho provato mai e che però nel sangue mi deve essere filtrato lo stesso, da quelle generazioni senza nome che giù, giù per li rami e fino alle radici più antiche e profonde dell'albero genealogico hanno vissuto vagabonde tra grotte e capanne dietro alle pecore e alle capre, su per le montagne senza un filo d'erba. I cafoni, i pecorari sporchi e ignoranti che pietra dopo pietra hanno costruito qualcosa sì, ma non per se stessi: l'hanno costruita per me e per i miei coetanei, che abbiamo l'ardire che a loro è mancato, quello di osare anche di godere, di quel poco o tanto di cui disponiamo. L'incazzatura è quella che tutti a quindici anni hanno provato contro il padre, che improvvisamente non era più perfetto, solo che io adesso non ho quindici anni e vado anzi per i quarantaquattro, e non mi fa piacere constatare che sono ancora un po' incazzato, parecchio incazzato con questi qui, che pure mi hanno messo in grado di fare ciò che ho fatto.
Vedo in TV le loro povere case venute giù come fossero fatte con i mattoncini Lego, vedo l'inutilità di tutti quei sacrifici e mi incazzo. Con loro, mi incazzo: perché lo sapevano che una casa fatta male con il terremoto ti cade in testa, ma lo stesso hanno risparmiato sul cemento, sul progetto, sulla loro stessa vita per farne due, tre, al prezzo di uno, di quegli orrori. E magari uno gli sarebbe pure bastato, ma no, nella vita si deve crescere, ci si deve espandere. E che problema c'è se lì non si può, tanto c'è sempre un assessore che si può comprare - da quelle parti una volta bastava una caciotta - e alla fine siamo in Italia, un condono prima o poi rimetterà le cose a posto.
La testa guida, la testa giudica, e il dolore se ne resta confinato in fondo al cuore. La Ragione, unica dea, dice che questi miei familiari, e chissà quanti come loro, sono stati vittime della propria stessa ottusità. E giudica più forte, questa testa senza più freni, per dimenticare il dolore antico che altrimenti vorrebbe gridare. L'ignoranza è una colpa, disse Manzoni, e una volta tanto questa testa gli dà ragione.
Ma c'è Fiorella che piange disperata; Fiorella, che ha quasi sessant'anni ed è nata zoppa, non ha mai preso un diploma e da più di quindici anni ha perso anche il lavoro. Fiorella, che fa la pulizie per vivere e non può operarsi perché non può permettersi di non lavorare, ma non camminerà più se non si opera. Fiorella che non si è mai sposata, e dall'altra notte non ha più nemmeno una casa.
Mi chiama mia madre, dice facciamo una colletta, e ci mancherebbe che mi tiro indietro. E poi dopo aver attaccato il telefono penso a lei, parecchio a lungo. Mi sento colpevole del mio rancore verso quel ramo antico della mia famiglia rimasto là, prigioniero della montagna, quel ramo di cui lei è una delle ultime foglie: quando anche loro cadranno, forse più niente resterà a raccontare quello che ci portiamo nel sangue, il freddo, la neve, la puzza delle pecore, la vita agra, il dolore senza nome di generazioni di paria. E a volte un sacro terrore mi coglie, la consapevolezza che in fondo porto solo una maschera, che in realtà è quello stesso albero che mi ha generato, l'albero dei paria, e basterebbe niente perché la maschera cada e a tutti si rivelino la vergogna e il dolore. E' una paura che mi insegue da sempre e mi assale spesso senza preavviso, che mi serra nel suo abbraccio gelido all'improvviso anche mentre sto camminando per Roma, ben vestito, in un bel tramonto estivo. Sono appena uscito da un ufficio dove le pulizie le fa qualcun altro (persone come Fiorella?), dove posso lavorare al caldo in inverno e al fresco in estate. Ho soldi in tasca quanti ne bastano per togliermi qualche sfizio lungo la strada, tipo comprare un libro, o un paio di scarpe. Sto camminando verso una casa bella e accogliente, dove una donna che amo mi sta aspettando. Come ci sente a non avere niente di tutto questo? Come ci si sente a non avere niente? Né soldi in tasca, né amore, né un posto dove andare? E a veder distrutta l'unica cosa che nel corso della tua vita eri riuscita a mettere insieme - un appartamentino in un condominio orrendo, che per te però è probabilmente una piccola reggia, a confronto con la stamberga in alta quota in cui sei venuta al mondo e hai passato l'infanzia?
Già, come ci si sente?
Non lo so come ci si sente, e l'ignoranza non è una colpa, è una tragedia, una calamità peggiore di un uragano, di un cataclisma. Peggiore di un terremoto.
Chi ridarà a Fiorella la sua casa? Dovremo mettere il sale sulla coda al costruttore che gliela vendette trenta e più anni fa, una scatola di cartongesso spacciata per appartamento antisismico? O andrà a vivere nella new town che il nostro esimio nano alfa ha subito proposto di realizzare, e che cazzo, gli affari sono pur sempre affari, e chissenefrega se tocca aspettare un terremoto per superare una buona volta 'sti cazzo di vincoli, quando il terremoto arriva facciamola una bella colata di cemento accanto alle macerie, anche se la gente lì non ci vorrebbe andare, anche se Fiorella rivorrebbe la sua, di casa, e al nano il voto glielo ha dato lei, ma a Berlusconia no, proprio non ci vuole andare.
Nessuno consolerà mai Fiorella. Ma chi non è ignorante, chi ha cultura anche minima e capacità di ragionare, cioè noi tutti, ma anche quelli si sono arricchiti sull'ignoranza sua e di quelli che come lei certi mezzi non se li sono potuti permettere; in una società davvero civile, tutti noi non dovremmo forse farci carico delle situazioni che l'hanno condotta là dove è arrivata adesso? Lei e tutti quelli come lei? E' civile un paese dove un costruttore ti contrabbanda per casa una baracca e gli uffici comunali avallano, dove non ti puoi operare perché non ti puoi permettere di smettere di lavorare (al nero), dove alla fine resti pure senza un tetto e se non avessi una sorella che ti si prende in casa finiresti sotto i ponti, perché figurati se qualcuno ti metterà mai ingrado di pagarti un affitto? E' civile un paese che - a differenza di me, che ho preferito spegnere il cuore - per non giudicarsi per quello che è spegne la Ragione e mette in scena solo le lacrime, il pianto interminabile di chi ha perso ogni cosa, servito puntuale a colazione, pranzo e cena dai Bruno Vespa, dagli Aldo Forbice e da tutti gli altri pennivendoli di regime?
Passerà anche questa, come tante altre ne sono passate, e purtroppo non cambierà questo mondo piccolo: fra cinque, dieci, quindici anni staremo lì a denunciare le malefatte della ricostruzione, e quelli che pure su questa tragedia hanno avuto il coraggio di succhiare soldi, e snoccioleremo uno ad uno tutti gli altri luoghi comuni di questo paese che sempre più diventa un non luogo, un posto senza legalità, senza giustizia, senza morale. Senza amor proprio, e con nessuna stima di se stesso. Senza cuore, nonostante il piagnisteo televisivo quotidiano, che proprio a mascherare questo vuoto serve.