giovedì 30 aprile 2009

Jesteśmy za utrzymaniem proporcjonalnego....

Jesteśmy za utrzymaniem proporcjonalnego podatku od dochodów osobistych i jesteśmy za niskim podatkiem od działalności gospodarczej. Uważamy, iż przedsiębiorcy powinni mieć ulgi za tworzenie pewnych, stałych i nowoczesnych miejsc pracy. Jako lewica wiemy jednak, że prawdziwy rozwój jest wtedy, gdy jest powszechny, gdy uczestniczą w nim szerokie grupy społeczne. (p.7) Postulujemy także co roczne określanie wysokości minimum socjalnego i minimum egzystencji, jako podstawy instytucjonalnej pomocy społecznej. (p.18) System podatkowy musi zawierać mechanizmy, silnie wspierające rodziny, które zdecydują się na posiadanie więcej niż jednego dziecka. Podstawowym celem działań lewicy w sferze socjalnej jest zapewnienie godnej pracy wszystkim, którzy są zdolni do jej podjęcia. Wraz z postępem technologicznym i wzrostem wydajności będzie zwiększała się liczba pracowników nie przystosowanych do coraz bardziej wymagającego rynku pracy. (p.18) (Biuletyn po Krajowej Konwencji Sojuszu Lewicy Demokratycznej, 2-3 czerwca 2007, www.sld.org.pl/download/index/biblioteka/22 - 30/03/2009).

Il Gattopuzzo è forse impazzito? Non proprio: questo altro non è che il programma elettorale che più mi si confà, secondo l'infallibile EuProfiler, disponibile on line all'indirizzo http://www.euprofiler.eu.

Basta che vai sul sito, rispondi alle domande e ti esce un bel profilo come questo:

Fare click, sennò non si capisce niente

dal quale si evince chiaramente che il mio partito ideale ahimè sta in Polonia, e questo è il suo programma elettorale:

Come sopra: fare click, sennò non si capisce niente

Ci sarebbe il piccolissimo particolare di non aver capito una ceppa di ciò che con il mio voto andrei a sostenere...
Ma questo è già un grande passo in avanti, essendo la situazione odierna tale per cui non solo il programma elettorale non lo capisco lo stesso, ma non so neppure quale sarebbe il mio partito in patria. E poi in fondo, molto spesso, i miei pensieri non è che siano tanto più chiari del corsivo che apre questo post...

Morale: se voglio essere rappresentato devo emigrare in mezzo a campi di broccoli gelati e santini di papa Woitila. Ammesso, poi, che i polacchi siano disposti a concedere la cittadinanza a uno che va lì per praticare un'attività degradata e degradante - chissà, magari ormai illegale - come la politica.


Che sfiga! Ma non poteva stare in costa azzurra, 'sto cazzo di partito ideale?

mercoledì 22 aprile 2009

Come si (ri)diventa selvaggi

Scorro rapidamente i miei post, che ultimamente esprimono quasi sempre un solo concetto: la preoccupazione per ciò che è diventato questo paese e chi lo abita. Razzismo, protofascismo e fascismo vero, sguaiatezza, violenza, vittimismo, spregio delle regole, vigliaccheria. E’ solo un campionario veloce, non sono un sociologo.
Mi viene da fare una riflessione: questa gente, a parte il saldo demografico e quello migratorio, è più o meno la stessa che abitava questi lidi vent’anni fa e prima ancora. Non che ci sia da essere orgogliosi dell’Italia di allora, tra Dc e anni di piombo, craxismo e rampantismo, ma insomma, almeno quel paese lì non dava l’idea della deriva inarrestabile.
E allora che è successo? Cioè, vent’anni fa la maggior parte di noi c’era già: perché il clima era diverso?
La riflessione è questa: mi sa che ognuno di noi ha un’idea non proprio esattissima del comportamento del prossimo, e neanche di quello proprio; siamo portati a pensare che se uno è un tipo a posto farà sempre e solo cose giuste, mentre se è un fetente la sua vita sarà fetenzìa, senza eccezioni e senza riscatto. E invece mi sa tanto che non è così: ognuno di noi, giusto o fetuso, è capace di una gamma vastissima di azioni, e prima o poi finisce per compierle tutte; alzi la mano chi non ha mai fatto qualcosa di cui si vergogna dal profondo di se stesso, o la carogna che non ha mai compiuto una buona azione disinteressatamente. il problema, che rende giusto o fetuso un paese intero, è la frequenza con cui le azioni dell’uno o dell’altro tipo vengono compiute; frequenza che dipende, più che da improbabili predisposizioni genetiche – tipo i romeni per intenderci, che per alcuni nostri acutissimi connazionali avrebbero “lo stupro nel DNA” – dalle condizioni al contorno: ambiente, stimoli esterni, situazione sociale. Vent’anni fa avevamo delle inibizioni che rendevano impossibile il dilagare di certi atteggiamenti oggi diventati normali, perché attorno ad essi c’era riprovazione sociale; magari ipocrita, perché dare fuoco a un campo Rom sarebbe piaciuto a tanti anche allora, ma pareva un’enormità, e probabilmente gli stessi che si sorprendevano a desiderare di farlo si angosciavano all’idea di queste pulsioni insane, e cercavano di correggersi, o almeno si autocensuravano. Da vent’anni a questa parte, invece, c’è chi incoraggia e coltiva questa forma di follia primordiale e presociale, per cui un sacco di gente si sente legittimata e sdoganata, finalmente libera di sbraitare, ululare e menare le mani alla luce del sole, tanto non si paga pedaggio e anzi, è gratificante come esperienza catartica di branco. E’ chiaro che c’è chi di queste cose ha un orrore naturale e quindi si oppone, e qualcun altro che invece a istinto sarebbe portato a giustificare, se non addirittura a dare man forte, ma è abbastanza razionale da continuare a censurarsi, oggi come faceva vent’anni fa; ma la legge impietosa dei grandi numeri vince, perché siamo parecchi milioni di persone, e quelli che si lasciano andare non sono più “casi isolati”, “mele marce”, “pochi devianti”, secondo gli eufemismi tanto cari alla nostra nomenclatura politica: sono gruppo, branco, massa, valanga che si autoalimenta, perché tante più persone romperanno gli argini quanti più saranno quelli che l’avranno prima di loro, facendo sentire legittimati gli epigoni. Siccome tutti ragioniamo più che altro su noi stessi, questi ragionamenti tendiamo a snobbarli; qualcuno più furbo e infinitamente più cinico si mobilita e mobilita i mezzi di comunicazione per battere la grancassa sul pericolo, sulla paura, sulla sindrome dell’assedio: sa, questo qualcuno, che dalla platea immensa che si beve il messaggio qualche centinaio di cerebrolesi che si alzerà e comincerà a menare le mani si trova; che diverse migliaia applauidiranno; che parecchi milioni faranno finta di niente, e comunque gli daranno il voto; che con quel voto potrà perpetuare il sultanato che è riuscito ad instaurare, come giustamente l’ha definito Sartori.
Chi credete che sia, questo qualcuno?

lunedì 20 aprile 2009

Cosa siamo diventati



Questo è l'esito (ancora parziale) del sondaggio on line del Sole 24 Ore, che chiede ai lettori se è stato giusto o no salvare i naufraghi in arrivo dall'Africa facendoli sbarcare sul territorio nazionale dopo tre giorni di odissea, un morto e un mortificante rimpallo di responsabilità con Malta.
Non credo che stavolta serva nessun commento.

giovedì 16 aprile 2009

Lo sballo di un buon libro

di Cristiana Capagni – pubblicato da La Voce Democratica 10-16 aprile 2009

Periodicamente dal settore “libri” arriva il monito: non si legge abbastanza, soprattutto non leggono i bambini, non leggono gli adolescenti. A parte le eccezioni costituite da fortunate serie che diventano anche pellicole (la saga di Harry Potter o di Twilight, per esempio, ma anche libri di autori nostrani la cui complessità della trama non supera quella di uno spot pubblicitario, cosa che ne ha decretato il successo giovanile), in effetti, la carta stampata non copre posizioni di rilievo nella graduatoria delle occupazioni giovanili e di quelle dell’infanzia.
Sul perché ci si interroga da tempo, le motivazioni sono senz’altro più d’una.
Che la televisione abbia riempito molti, troppi spazi nel tempo libero dei bambini e dei ragazzi, ma anche delle famiglie, è senz’altro vero. Non è corretto demonizzarla in toto, bisogna ricordare l’importanza che ebbe nel processo di modernizzazione del nostro Paese contribuendo oltretutto a divulgare una lingua unica, tuttavia oggi non si ravvede la necessità di trascorrervi passivamente davanti ore ed ore ogni giorno, soprattutto considerata la scarsa qualità media dei programmi e dei messaggi (dis)educativi da essi inviati.
Il computer ha occupato altri spazi, alcuni di essi rubandoli alla tivù, e anche lui se ne è presi decisamente troppi. Molti adolescenti vivono attraverso il computer, illudendosi che esso sia in grado di filtrare le goffaggini adolescenziali e la paura di mettersi in relazione con altri esseri umani, affidando alla rete il compito di permettere di comunicare, di informare, di divertire, ma senza che essa possa insegnare la capacità critica, la capacità di sognare, fantasticare, attendere. La necessità di avere tutto subito, di dirsi tutto subito, di sapere tutto subito, sta facendo sì che gli adolescenti parlino un linguaggio povero ed elementare, utilizzando nella lingua scritta delle contrazioni e delle crasi che fanno somigliare le frasi ad aridi codici fiscali .
Eppure tutto questo non è sufficiente a spiegare un dato sconcertante: almeno tre milioni di studenti italiani delle elementari, medie e superiori non leggono libri al di fuori dei testi scolastici.
Le statistiche ci informano di dati piuttosto ovvi: solitamente i figli di genitori che hanno un elevato grado di istruzione leggono di più, così come il numero di piccoli e giovani lettori è maggiore al nord che non al sud.
Come incrementare la percentuale di giovani lettori? Il buon esempio, come suggerisce il dato relativo all’influenza dell’ambiente familiare, dovrebbe essere la prima mossa: se in casa si amano i libri, se fin da piccoli i bambini saranno abituati a sfogliarne le pagine e ad ascoltare adulti che leggono loro delle storie, se i genitori leggono con piacere, già siamo ben oltre la metà dell’opera. E quelle case dove la libreria è un mobile poco apprezzato, utilizzato per lo più per ninnoli e centrini di pizzo? Per colmare la lacuna educativa di chi vive contesti familiari poco inclini a suscitare simpatia per i libri, subentra la scuola, che se riesce a trasmettere almeno una scintilla di sana curiosità per il mondo letterario, può generare il benefico incendio dell’amore per la cultura.
In che modo la scuola debba trovare le giuste parole ed il giusto approccio al fine di far appassionare gli studenti alla lettura, è un dibattito tutt’ora in corso. E’ meglio prendere in considerazione le espressioni di letteratura per così dire “minore” scegliendo fra qualche best seller in voga tra i ragazzi, libri scritti con triste semplicità sintattica soggetto-complemento-verbo, che parlano un linguaggio comune a molti adolescenti che probabilmente non riuscirebbero ad intenderne uno più fiorito, oppure si può tentare l’impresa di accostare i giovani studenti a ricchi e validi esempi di letteratura lasciando che scoprano la sua profonda bellezza, la capacità di incantare e di estraniarsi totalmente da ciò che è intorno? Si può innalzare il livello di qualità di ciò che viene letto o è più importante incrementare la percentuale di chi legge, a prescindere da cosa?
Si può dimostrare a tanti ragazzi che la lettura di un buon libro consente al nostro cervello dei trip che nessuna pasticca potrà mai regalare?

martedì 14 aprile 2009

Ora che siamo povera gente

Non riesco a non pensare male. E’ vero, lo vado sempre ripetendo, che ogni popolo ha i governanti che si merita, ma non è che questa considerazione elementare possa poi diventare un lavacro per la rivergination della banda di criminali che si è impadronita di questo paese tra il plauso delle folle.
Dall’Aquila devastata la televisione di stato e quell’altra, più onesta perché dichiaratamente proprietà di una parte, ci inondano di lacrime e tragedie, ma non di informazione.
Siamo chiamati a celebrare l’ascensione di Silvio nell’empireo degli eroi cavallereschi, il pio guerriero che si spende, si offre tutti i giorni alla sofferenza, tocca corpi offesi, si commuove, piange e alla fine assume su di sé l’impegno davanti al cielo - nessuno sarà lasciato solo!
Sullo schermo, quando non c’è Lui in persona ad occuparlo, si susseguono siparietti edificanti con il carabiniere eroico che non ha mollato la sua postazione al 112 mentre gli ballava la scrivania – per non lasciare sole le persone che chiamavano -, con il medico che invece di mettersi in salvo è rimasto ad assistere i suoi pazienti, e poi non può mancare la pasionaria, una ragazza bella che con voce accorata e gli occhi gonfi lancia l’anatema – mai più! – diretto ai politici, è chiaro, ma che non tocca Lui: Lui è al di là e al di sopra, Lui dispensa indulgenze e all’occorrenza assolve, nella sua bontà infinita – ho visto, ho verificato, non c’è dolo, gli edifici sono costruiti con le tecnologie di altre epoche - Presidente perito edile?!?!?
E intanto il reality prosegue: la signora anziana che gli si attacca al collo – Silvio salvami, solo tu puoi! - e lui, generoso, buon padre di famiglia, ascolta, promette, infonde fiducia, rassicura; e poi macerie e lacrime, insistite, e ancora urla, e lacrime ancora. Stai lì, in attesa di avere uno straccio di notizia, ma niente: ormai il format del reality si è mangiato anche lo spazio dell’informazione, il massimo che puoi sperare è un rigurgito di reviviscenza di Bruno Vespa, che si riscopre aquilano e fa il diavolo a quattro per inchiodare alle proprie responsabilità il Monte Paschi di Siena (!), che in quanto banca senese ha il dovere di finanziare il restauro della chiesa di San Bernardino, che proprio da Siena veniva.
Ci prova Santoro a raccontare qualcosa del dietro le quinte, con domande manco troppo sovversive, tipo – ma come mai se erano quattro mesi che le scosse si susseguivano nessuno ha predisposto un’esercitazione di evacuazione, nessuno ha verificato la stabilità degli edifici pubblici, e nella piazza indicata per eventuali evacuazioni di massa c’erano le bancarelle del mercato di Pasqua? E naturalmente viene giù il firmamento – tradimento! Si calunniano i valorosi volontari, gli abnegati militari, gli indefessi operatori della Protezione Civile! – e anche il terremoto diventa occasione per dare l’assalto all’ultimo spazio non ancora lottizzato dell’informazione televisiva, uno spazio che potrà anche non piacere, ma che di questi tempi faremmo bene a tenerci stretto, che l’offerta non è poi così ampia.
Del resto, non è che Cicchitto e compagnia siano i soli a sciacalleggiare sulle macerie: delle performance dell’esimio nano alfa abbiamo già detto, ma vediamo anche un compuntissimo Tremonti che invita a devolvere il cinque per mille ai terremotati, e così fa bella figura e risparmia pure, tanto i fondi li toglie al volontariato, mica al ponte sullo stretto di Sua Maestà. E tutto con sottofondo di lacrime e canti funebri, che anche difendersi da questa rapina diventa un’impresa improba, con l’accusa incombente di togliere il pane di bocca ai terremotati.
Già, “il pane di bocca”: locuzione che insieme a tante altre - su tutte “la povera gente” è tornata in auge dal cassetto pieno di naftalina in cui era finita per tanti anni. E pensiamo anche alle operazioni esibite con gran frastuono di grancassa da questo governo: il grembiulino a scuola, il cinque in condotta – Libro Cuore! – il permesso di ampliare la casetta in barba a tutte le norme, comprese quelle antisismiche, per “fare spazio al figlio che si sposa”, come se i nostri pargoli allevati a playstation e reality fossero disponibili a condividere con chicchessia una stanza che non sia quella della bonazza del Grande Fratello.
Torna l’immagine di un Italia arcaica, quella della “povera gente”, appunto, che non è fatta di cittadini portatori di diritti, ma di masse bisognose di protezione, di soggetti passivi dello stare al mondo, che da soli mai e poi mai saprebbero districarsi nelle insidie di questa Italia divenuta così infida, con tutti questi rumeni pronti a rapinare e stuprare, e questi giovani senza valori, ubriachi drogati e violenti, che da un momento all’altro possono spiaccicarti sull’asfalto con i loro macchinoni. Masse deboli, bisognose di guida, ricche solo di buon cuore ma indifese, e “….meno male che Silvio c’è…” cantavano estasiati e grati durante le ultime elezioni.
Un’Italia vecchia e spaventata dalla portata della sfida della globalizzazione è stata rassicurata e coccolata dal Grande Imbonitore, che la culla nel sogno che il tempo non sia passato, e che si sia sempre quella nazione povera ma in fondo felice del secondo dopoguerra, una nazione che non è mai esistita, se non nei ricordi di chi allora era giovane e proietta oggi in quel ritratto idilliaco e falso la nostalgia per la sua passata gioventù.
L’Italia di oggi si vede così, e sarebbe da ridere se non fosse una tragedia.
Siamo “povera gente”, gli stranieri “ci tolgono il pane di bocca”, la gioventù “è priva di valori”, e poi “tutta questa delinquenza”, “non si può stare tranquilli neppure in casa propria”, e aggiungetene pure quante ve ne vengono in mente, perché potete stare sicuri che in questo paese qualcuno quelle cose le dice, anche le più improbabili. Le dice e ci vuole credere.
E’ il complesso di inferiorità atavico di cui ha sempre sofferto questo paese che nei secoli è stato di servi e di sudditi, furbi magari, ma di cittadini mai. Paese che ormai è pure vecchio, con la natalità più bassa d’Europa e la vita media più lunga, e allora come sperare in un sussulto di orgoglio, di entusiasmo, in un moto risoluto di riappropriazione dei propri diritti, se l’anagrafe certifica che siamo decrepiti? No, un popolo così ha bisogno di un padrone protettore, uno che sia come loro e però più furbo, più svelto, con la battuta più pronta, uno che sia capace di vendersi bene a qualsiasi prezzo e a qualsiasi offerente: ieri all’amico Bush e oggi a Mister Obaaaaamaaaaaa… e sempre a Putin, uno insomma capace di fare il guitto tra i potenti della terra, che con la simpatia e un paio di sviolinate qualcosa a casa vedrai che alla fine ce lo porta, vedrai…
La pensano così. Non ridete, è un dramma, e ancora più lo sarà il risveglio da questo sogno tragico. E sì, perché come ha scritto qualche giorno fa l’amico Giulio (http://azionecatodica.blogspot.com/2009/04/banale-5.html) , in Italia ci sono almeno sei milioni di coglioni. Io, che non sono così ottimista, sarei pronto a certificare che ce ne sono molti, molti di più.

mercoledì 8 aprile 2009

Senza cuore

Il Gattopuzzo è di origine abruzzese. Non direttamente: a nascere tra le montagne è stata mia madre, ma io mi sono sempre sentito molto legato a quella terra dura, e spesso mi presento come abruzzese. In queste ore terribili della distruzione dell'Aquila, di Olla e di tanti altri paesini di quella che considero la mia patria d'adozione dovrei essere devastato, e non lo sono. La cosa mi fa sentire colpevole, e vale la pena cercare di capire cos'è che (non) mi fa sentire come mi dovrei sentire. Non è niente di nobile: è solo incazzatura. Passerà, e allora soffrirò, come altre volte mi è successo in passato.
Avere le radici affondate in un qualche luogo di questo mondo significa non potersene liberare. Spesso anche non volersene liberare, ed è quanto capita a me rispetto al tenue legame che continuo a coltivare dentro di me con l'Abruzzo. Amo quelle montagne aspre e pelate, quei paesaggi di terra e di sassi dove puoi camminare fino allo sfinimento prima di incontrare un essere umano, una casa, un semplice recinto per le pecore. Su quelle montagne mio nonno ha faticato buona parte della sua vita, tra pecore cani e capanne, e mia nonna si è rotta la schiena per far crescere patate e rape in mezzo alle pietre. Di mia nonna non ricordo quasi niente, è morta che avevo due anni; ricordo bene il nonno, un vecchio alto e diritto, con gli occhi chiari e una piega all'angolo della bocca, come una smorfia di sofferenza. Era di una bontà disarmante. Altri vecchi della mia famiglia non erano come lui: la pietra, il vento e la neve li avevano induriti, avevano cotto la loro anima come la pelle della loro faccia, diventata cuoio. Erano macchine da sopravvivenza, avvezzi alle tempeste e alle guerre, che in gioventù avevano combattuto a ripetizione accettandole come si accettano la pioggia e la neve. E di generazione in generazione questi vecchi colore del cuoio hanno annichilito il cuore e addestrato il cervello a fare a meno di qualsiasi pensiero astratto, perpetuando una genìa tristemente concreta, dedita a sposarsi e riprodursi in un ciclo sempre uguale, e a tirar su casa. Tirar su casa: so di sacrifici inenarrabili fatti come se non fosse possibile altra scelta, e forse nella mente di quelle persone era davvero così. Cubi di cemento, di mattoni, di calce tirati su per ogni dove, in mezzo ai prati come sulle pendici scoscese delle montagne, dove costruivano quelle case assurde di tre piani in cui potevi entrare o dal piamo terra, come in tutte le case di questo mondo, oppure direttamente dal terzo piano, se facevi il giro della casa e ti arrampicavi su per l'erta dove l'avevano ancorata, tra la parete di roccia e il cielo. Nessuna concessione all'estetica, edifici brutti e squadrati che sono sorti come funghi, uno dopo l'altro, a snaturare un paesaggio immacolato inframmezzandolo di grigio e di recinzioni di rete, di filo spinato, di mattoni, di legno, ognuna fatta a modo suo, senza armonia, in una cacofonia di colori, di madonne da giardino e di infissi di alluminio. Paesaggi gloriosi perduti per sempre, trasformati in distese dove lo sguardo non si riposa, inciampa continuamente in ostacoli massicci o sottili, ma tutti ugualmente brutti.
Tante volte ho litigato con i vecchi della mia famiglia, per questa loro concezione del mondo che esilia ogni forma di bellezza. Mi hanno sempre risposto che la bellezza è un lusso, che io me la posso permettere perché loro si sono spaccati la schiena per offrire a figli e nipoti qualcosa di più, e però loro non hanno mai voluto capire me quando gli chiedevo come mai, se adesso era possibile permettersi quel lusso, non se lo permettevano pure loro, e soprattutto come mai non si permettevano e non si permettono ancora oggi nessun riposo; come mai stanno ancora lì a tirar su blocchetti e a pagare condoni - quello che costruiscono è rigorosamente abusivo, fatto con il cemento più scadente e, ovviamente, brutto - ora che noi figli, noi nipoti siamo grandi e le nostre case le abbiamo, oppure paghiamo l'affitto se non abbiamo voglia di fare la vita che hanno fatto loro. Ma niente, pare che un uomo non sia un uomo se non suda come un animale tra carriole, carrucole e cazzuole, e una donna non sia una donna se non lo sostiene nell'impresa accudendo i figli, preparando puntuale il pranzo e la cena, lavando e stirando. Non c'è festa comandata in cui io e mio zio non ci azzanniamo, subito dopo pranzo, su queste nostre opposte concezioni del mondo, e lui mi commisera, lo vedo, per non essere capace - pensa - di fare quello che lui ha fatto: uomo senza spina dorsale, senza senso della famiglia e dell'onore.
Certe cose ai vecchi si perdonano, ma un po' di veleno rimane.
Ed ecco che una notte la terra trema, e la sentiamo anche a Roma; e il mattino dopo ci alziamo e la TV, o il vicino di casa, o il collega in ufficio ci dicono che è stata una tragedia, che è venuta giù mezza città dell'Aquila e vari paesini, e la notizia stordisce. I parenti, gli amici... Tutti salvi, quasi per miracolo, ma parecchi hanno perso la casa. Racconti drammatici di corse per le scale come se si corresse sull'acqua, che quelle si disfacevano mentre ci posavi i piedi sopra. I pianti al telefono, le urla di quelli che in meno di un minuto hanno visto tutte le loro cose venire giù, e anche la casa tirata su con tanta fatica è venuta giù, insieme a tutta la loro vita, ai ricordi, al servizio buono regalato dalla zia per le nozze, le foto, tutto perso.
E' troppo per poter partecipare, un lago nero mi si allarga nel cuore, come sangue vischioso. E' un dolore antico che non ho voglia di riconoscere, preferisco lasciarlo dov'è, ignorarlo. Meglio lasciar guidare la testa, quella testa che, dopo aver tirato un sospiro di sollievo - avete perso tutto, ma almeno siete vivi - comincia a giudicare. E a ricordare di quante infinite discussioni furono oggetto quelle case orrende e insicure, messe insieme alla meno peggio perché tanto sarebbero state comunque meglio di una capanna e invece no, oggi sono diventate trappole mortali e sarebbe stato cento, mille volte meglio avere sulla testa un tetto di paglia o anche di lamiera, una cosa che cadendo almeno non ppossa farti male. Il dolore che confino laggiù, in fondo al cuore, deve essere quello antico che io non ho provato mai e che però nel sangue mi deve essere filtrato lo stesso, da quelle generazioni senza nome che giù, giù per li rami e fino alle radici più antiche e profonde dell'albero genealogico hanno vissuto vagabonde tra grotte e capanne dietro alle pecore e alle capre, su per le montagne senza un filo d'erba. I cafoni, i pecorari sporchi e ignoranti che pietra dopo pietra hanno costruito qualcosa sì, ma non per se stessi: l'hanno costruita per me e per i miei coetanei, che abbiamo l'ardire che a loro è mancato, quello di osare anche di godere, di quel poco o tanto di cui disponiamo. L'incazzatura è quella che tutti a quindici anni hanno provato contro il padre, che improvvisamente non era più perfetto, solo che io adesso non ho quindici anni e vado anzi per i quarantaquattro, e non mi fa piacere constatare che sono ancora un po' incazzato, parecchio incazzato con questi qui, che pure mi hanno messo in grado di fare ciò che ho fatto.
Vedo in TV le loro povere case venute giù come fossero fatte con i mattoncini Lego, vedo l'inutilità di tutti quei sacrifici e mi incazzo. Con loro, mi incazzo: perché lo sapevano che una casa fatta male con il terremoto ti cade in testa, ma lo stesso hanno risparmiato sul cemento, sul progetto, sulla loro stessa vita per farne due, tre, al prezzo di uno, di quegli orrori. E magari uno gli sarebbe pure bastato, ma no, nella vita si deve crescere, ci si deve espandere. E che problema c'è se lì non si può, tanto c'è sempre un assessore che si può comprare - da quelle parti una volta bastava una caciotta - e alla fine siamo in Italia, un condono prima o poi rimetterà le cose a posto.
La testa guida, la testa giudica, e il dolore se ne resta confinato in fondo al cuore. La Ragione, unica dea, dice che questi miei familiari, e chissà quanti come loro, sono stati vittime della propria stessa ottusità. E giudica più forte, questa testa senza più freni, per dimenticare il dolore antico che altrimenti vorrebbe gridare. L'ignoranza è una colpa, disse Manzoni, e una volta tanto questa testa gli dà ragione.
Ma c'è Fiorella che piange disperata; Fiorella, che ha quasi sessant'anni ed è nata zoppa, non ha mai preso un diploma e da più di quindici anni ha perso anche il lavoro. Fiorella, che fa la pulizie per vivere e non può operarsi perché non può permettersi di non lavorare, ma non camminerà più se non si opera. Fiorella che non si è mai sposata, e dall'altra notte non ha più nemmeno una casa.
Mi chiama mia madre, dice facciamo una colletta, e ci mancherebbe che mi tiro indietro. E poi dopo aver attaccato il telefono penso a lei, parecchio a lungo. Mi sento colpevole del mio rancore verso quel ramo antico della mia famiglia rimasto là, prigioniero della montagna, quel ramo di cui lei è una delle ultime foglie: quando anche loro cadranno, forse più niente resterà a raccontare quello che ci portiamo nel sangue, il freddo, la neve, la puzza delle pecore, la vita agra, il dolore senza nome di generazioni di paria. E a volte un sacro terrore mi coglie, la consapevolezza che in fondo porto solo una maschera, che in realtà è quello stesso albero che mi ha generato, l'albero dei paria, e basterebbe niente perché la maschera cada e a tutti si rivelino la vergogna e il dolore. E' una paura che mi insegue da sempre e mi assale spesso senza preavviso, che mi serra nel suo abbraccio gelido all'improvviso anche mentre sto camminando per Roma, ben vestito, in un bel tramonto estivo. Sono appena uscito da un ufficio dove le pulizie le fa qualcun altro (persone come Fiorella?), dove posso lavorare al caldo in inverno e al fresco in estate. Ho soldi in tasca quanti ne bastano per togliermi qualche sfizio lungo la strada, tipo comprare un libro, o un paio di scarpe. Sto camminando verso una casa bella e accogliente, dove una donna che amo mi sta aspettando. Come ci sente a non avere niente di tutto questo? Come ci si sente a non avere niente? Né soldi in tasca, né amore, né un posto dove andare? E a veder distrutta l'unica cosa che nel corso della tua vita eri riuscita a mettere insieme - un appartamentino in un condominio orrendo, che per te però è probabilmente una piccola reggia, a confronto con la stamberga in alta quota in cui sei venuta al mondo e hai passato l'infanzia?
Già, come ci si sente?
Non lo so come ci si sente, e l'ignoranza non è una colpa, è una tragedia, una calamità peggiore di un uragano, di un cataclisma. Peggiore di un terremoto.
Chi ridarà a Fiorella la sua casa? Dovremo mettere il sale sulla coda al costruttore che gliela vendette trenta e più anni fa, una scatola di cartongesso spacciata per appartamento antisismico? O andrà a vivere nella new town che il nostro esimio nano alfa ha subito proposto di realizzare, e che cazzo, gli affari sono pur sempre affari, e chissenefrega se tocca aspettare un terremoto per superare una buona volta 'sti cazzo di vincoli, quando il terremoto arriva facciamola una bella colata di cemento accanto alle macerie, anche se la gente lì non ci vorrebbe andare, anche se Fiorella rivorrebbe la sua, di casa, e al nano il voto glielo ha dato lei, ma a Berlusconia no, proprio non ci vuole andare.
Nessuno consolerà mai Fiorella. Ma chi non è ignorante, chi ha cultura anche minima e capacità di ragionare, cioè noi tutti, ma anche quelli si sono arricchiti sull'ignoranza sua e di quelli che come lei certi mezzi non se li sono potuti permettere; in una società davvero civile, tutti noi non dovremmo forse farci carico delle situazioni che l'hanno condotta là dove è arrivata adesso? Lei e tutti quelli come lei? E' civile un paese dove un costruttore ti contrabbanda per casa una baracca e gli uffici comunali avallano, dove non ti puoi operare perché non ti puoi permettere di smettere di lavorare (al nero), dove alla fine resti pure senza un tetto e se non avessi una sorella che ti si prende in casa finiresti sotto i ponti, perché figurati se qualcuno ti metterà mai ingrado di pagarti un affitto? E' civile un paese che - a differenza di me, che ho preferito spegnere il cuore - per non giudicarsi per quello che è spegne la Ragione e mette in scena solo le lacrime, il pianto interminabile di chi ha perso ogni cosa, servito puntuale a colazione, pranzo e cena dai Bruno Vespa, dagli Aldo Forbice e da tutti gli altri pennivendoli di regime?
Passerà anche questa, come tante altre ne sono passate, e purtroppo non cambierà questo mondo piccolo: fra cinque, dieci, quindici anni staremo lì a denunciare le malefatte della ricostruzione, e quelli che pure su questa tragedia hanno avuto il coraggio di succhiare soldi, e snoccioleremo uno ad uno tutti gli altri luoghi comuni di questo paese che sempre più diventa un non luogo, un posto senza legalità, senza giustizia, senza morale. Senza amor proprio, e con nessuna stima di se stesso. Senza cuore, nonostante il piagnisteo televisivo quotidiano, che proprio a mascherare questo vuoto serve.

giovedì 2 aprile 2009

Divento popolare

Il blog non lo aggiorno da più di una settimana, ma oggi è stato comunque un buon giorno in quanto a contatti, e ieri ancora meglio: record assoluto, con ventiquattro (che per me sono un’enormità) contatti.
E che è successo? Mica la gente si sarà improvvisamente accorta della profondità, dello spessore, della incommensurabile lucidità e preveggenza del puzzopensiero?
Beh, un po’ mi sento lusingato, lo ammetto, per un attimo sogno un miracolo del passaparola, e folle oceaniche che si accalcano alle porte (strettissime) del server blogger con la bava alla bocca del mouse, per gustare caldo caldo l’ultimo post appena sfornato…
E allora andiamo a vedere cosa può aver attirato questa piccola folla – si diventa subito furbi, eh? Fai ventiquattro contatti e subito sei pronto a scrivere di quello che la gente vuole leggere, invece che di ciò che ti pare importante.
Insomma, apriamo ShinyStat e leggiamo insieme:


(Fateci click sopra, sennò non si legge una mazza)

Bene, non mi leggono solo i parenti stretti, gli amici pietosi e quelli condotti per un orecchio da quella santa donna della mia cucciolotta: giungono a me turbe di viaggiatori dai motori di ricerca!
Vediamo, allora, vediamo quali chiavi di ricerca usano, ma così, eh, tanto per capire quali post sono stati più apprezzati, non sia mai che mi metto pure io a rincorrere l’audience!
E ancora viene in soccorso ShinyStat, il mitico motore delle statistiche, ed ecco, finalmente so!
Leggete sotto, e saprete anche voi:


(Fate click pure qui, sennò del senso del post davvero non capirete una ceppa)

Insomma, uno non è che pensa di essere la reincarnazione di Gramsci né il clone di Pavese o di Kant, e neppure – un po’ più modestamente - il figlio incognito di Gianni Brera; lo so da solo di essere un bischero* un tantino rompicoglioni (un vecchio amico mi chiamava Brontolo), per cui risparmiatevi pure la sghignazzata. Però, ammetterete, e che cazzo (questa aumenta i contatti, sono sicuro): è quasi un anno che mi scervello per cercare di rendere intelligibili prima di tutto a me, e poi si spera a qualcun altro, pulsioni socioemozionali talmente incasinate da mettere a durissima prova il mio povero lessico, e questo è il risultato? Cioè, odiens al massimo per aver messo un post con il fotomontaggio di uno con una minchia al posto della testa (un essere mitologico con il corpo di uomo e la testa di cazzo, che non è mai stato raro nell’Olimpo variegatissimo dei tipi umani), oltre che un altro post forse spiritosetto e forse no, in cui parlavo di una vecchia fiamma in divisa da vigila? E’ deprimente, lo ammetterete.
E vabbè, alla fine abbiamo capito: da oggi si cambia registro comunicativo, e allora vediamo se ci verrete, a leggere le perle del puzzopensiero, brutta banda di stronzi (questa fa almeno tre contatti).
Del resto, siamo pur sempre i sudditi di quel tizio che oggi si è fatto cazziare da Sua Maestà Britannica perché era rumoroso e cafoncello anzichenò, e chi sono io per permettermi di deviare dai suoi sacri precetti comportamentali?
Alla prossima, cazzo cazzo cazzo culo tette figa figa figa tette figa…

* dicesi bischero - sostantivo maschile usato soprattutto in Toscana quale sinonimo di coglione, cazzone et similia - un soggetto poco furbo, e anzi incline a porre in essere azioni che, dovendo in teoria favorirlo, in realtà lo danneggiano assai, come quei che il cetriol nel posteriore apprende, per dirla con le parole del sommo poeta. L'appellativo era in origine un cognome, la sostantivazione derivando dal fatto che esso era posseduto da una nobilissima famiglia fiorentina che, richiesta dalla municipalità di cedere a prezzo di mercato un proprio terreno per ragioni di pubblica utilità, si rifiutò e se lo vide così espropriare gratis et amore dei, guadagnandosi però così imperitura fama, seppur celata nei meandri del dialetto.
Questa proprio non la sapevate, eh?